
Le trattative si sono avviate, ritirate, sfumate e consumate. In città riecheggia un pensiero spesso cantato con nostalgica malinconia:
Roma non si discute, si ama.
Un mantra che parla di anime, non di conti. Il mercato estivo della Roma (63 milioni spesi, 50 incassati) lascia il saldo negativo a -13 milioni circa, ma la vera sottrazione è forse quella di un’identità che si sgretola.
Alta finanza internazionale e vuoti d’anima
Il modello d’investimento resta quello di Gasperini: giovani da valorizzare, plusvalenze da realizzare, spese misurate. Wesley è costato 30 milioni, El Aynaoui 25, e l’opzione di acquisizione per Ferguson sfiora i 40 milioni. In uscita, le cessioni di Abraham e Le Fée hanno contribuito con 40 milioni, o poco meno. Ma, al di là dei numeri, il retrogusto è quello di “americanizzazione” — un business che lascia Roma senza sue bandiere vere, perché la passione non si compra.
Claudio Ranieri, con schiettezza da antico romano, lo aveva sottolineato: “Abbiamo due mercati di sofferenza”. E ancora: “È un mondo dove non si può sbagliare”. Parole che suonano come moniti su una squadra che fatica a trattenere i suoi figli simbolo, com’erano Totti e De Rossi, e fatica ad attrarre chi “ci amerebbe”.
Il sogno che resta anche nel calciomercato
Un mercato “incompiuto” lo definisce con lucidità il web: promesse non mantenute, ambiti mai realmente raggiunti, tranne la figura di Gasperini, autentico colpo tecnico della stagione. Il sospetto? Che la Roma sia diventata una piattaforma su cui costruire, non una casa da abitare.
Un tempo la Roma era capace di attrarre campioni affermati, simboli già scolpiti nella storia del calcio. L’esempio più luminoso resta Gabriel Batistuta, che nell’estate del 2000 lasciò Firenze per vestire il giallorosso. Arrivò per scrivere pagine di gloria, e in un solo anno regalò lo scudetto a una città intera: un trasferimento che fu vissuto come un atto d’amore reciproco, tra il campione argentino e la Capitale.
Oggi, invece, il quadro sembra capovolto. La Roma fatica a convincere persino un ragazzo del 2006 come Tyrique George, talento grezzo del Chelsea che ha preferito il Fulham, trattativa poi non andata in porto, ai colori giallorossi. Non si tratta di paragonare il peso specifico dei due calciatori, ma di fotografare la differenza di percezione: se ieri l’Olimpico era meta ambita, oggi sembra non bastare più l’atmosfera magica di uno stadio che trema per sedurre i giovani talenti.
È in questo scarto che si nasconde il tema vero: la perdita di identità. Da Batistuta a George, da un campione pronto a farsi carico del destino di una città a un diciannovenne che non vede nella Roma la rampa di lancio migliore. È la distanza tra due epoche, e forse la sfida più grande per i Friedkin e per Gasperini non sarà solo costruire una squadra vincente, ma restituire alla Roma quel fascino irresistibile che in passato faceva tremare i cuori dei campioni e oggi sembra sbiadire di fronte alle logiche del mercato.