La Roma di Gian Piero Gasperini giunge alla boa del girone d’andata in zona Champions League con un’identità chiarissima: squadra dura, corta, che concede poco. Il dato che racconta tutto è la fase difensiva: pochi gol presi e tante partite “tenute” anche quando l’attacco non accende.
Difesa di ferro e un protagonista che si è preso la scena
Il simbolo del girone d’andata è Mile Svilar: continuità, interventi pesanti e quella sensazione di sicurezza che vale punti. Davanti a lui, Gianluca Mancini e Evan Ndicka restano il cardine della struttura, mentre Zeki Çelik si è ritagliato spazio con la sua duttilità, alternando quinto e braccetto senza scomporsi.
Ma la rivelazione vera è Matías Soulé. Se a inizio anno era un investimento “da decifrare”, oggi è un giocatore centrale nel progetto: strappi, qualità nel breve e soprattutto giocate che spostano l’inerzia. La Roma, fin qui, ha vissuto spesso di episodi: averne uno che l’episodio lo crea è una notizia enorme.
Tra i promossi anche Lorenzo Pellegrini (leadership e lampi, pur con qualche acciacco) e Bryan Cristante, riferimento costante per equilibrio e ordine.
Il limite: pochi gol e big a intermittenza
Il rovescio della medaglia è l’attacco: troppo poco bottino complessivo per una squadra che vuole stare stabilmente tra le prime. Artem Dovbyk ed Evan Ferguson non hanno ancora garantito la continuità realizzativa che serve: presenza a fasi, impatto alterno, e una sensazione di reparto ancora “in costruzione”. Per questo, la soluzione migliore, resta prendere Zirkzee a gennaio.
Il caso più emblematico è Paulo Dybala: quando c’è, alza il livello; quando manca, la Roma perde fantasia e soluzioni. E poi c’è Leon Bailey, fin qui oggetto misterioso tra stop e poca incisività: un rinforzo che non è riuscito a diventare davvero un’opzione affidabile.
Il giudizio, quindi, è chiaro: Roma promossa per struttura e mentalità, rimandata per produzione offensiva. La seconda metà di stagione dirà se i “sufficienti” possono diventare “ottimi”.