
A St. George’s Park, uno dei volti più riconoscibili della Roma si racconta, tra il presente e i ricordi di un percorso fatto di sfide, cadute e rinascite. Stephan El Shaarawy, oggi tra i leader della squadra, parla con la calma di chi ha imparato che il calcio non è solo tecnica e gol, ma soprattutto forza mentale.
Il ritiro in terra inglese, a metà del programma di preparazione, si sta svolgendo in una cornice ideale. “La struttura è molto bella, stiamo lavorando con intensità, come ci chiede il mister. C’è entusiasmo e disponibilità da parte di tutti”, racconta, lasciando intendere che il gruppo stia già trovando la giusta sintonia. I ritiri, nel tempo, sono cambiati: l’ex Milan sottolinea come i social e le attività di marketing abbiano dato più spazio alle tournée e alle amichevoli di cartello, ma la sostanza in campo resta la stessa. Il focus è migliorare la condizione fisica e farsi trovare pronti quando conta.
Il viaggio nella carriera di El Shaarawy è punteggiato da momenti che hanno forgiato il suo carattere. Il primo grave infortunio al Milan, a soli vent’anni, lo costrinse a un anno lontano dal campo. Fu allora che imparò il significato reale di resilienza: rialzarsi perché non esiste alternativa. Nel 2015, al Monaco, la sfida fu diversa: la salute c’era, ma mancava la fiducia dell’allenatore. Allenarsi da solo, per sé stesso, in attesa di un’occasione, fu l’unica strada, e quella chance arrivò con la Roma, aprendo un capitolo decisivo. Anche l’esperienza in Cina, scelta ponderata e ragionata, lasciò un insegnamento prezioso, seguito dal ritorno a Trigoria, accolto con entusiasmo.
Quando gli si chiede se al suo arrivo avesse mai immaginato di diventare uno dei capitani giallorossi, sorride. “È un orgoglio e un onore. Indossare la fascia significa sentire il peso della storia di una città intera”. Per lui, fascia o meno, l’impegno e il sacrificio restano immutati. Sottolinea come il mister voglia più figure di riferimento nello spogliatoio, capaci di trasmettere senso di appartenenza e spirito di squadra, un ruolo che oggi condivide con compagni di lunga militanza come Lorenzo, Bryan e Mancini.
Tra i momenti che più porta nel cuore c’è il gol di tacco all’esordio all’Olimpico sotto la Sud, non solo bello ma simbolo di rinascita personale. Tra le reti della storia del calcio che più lo emozionano, cita i gol di Grosso, Del Piero e il rigore di Totti nella finale del Mondiale 2006, oltre a prodezze di campioni come Kakà, Ronaldinho e Neymar. E se deve scegliere una rete “quasi fatta”, la mente va subito alla semifinale col Liverpool, con quel palo che ancora brucia.
Sul talento, ha le idee chiare: “Serve una buona base per emergere, ma quello che ti mantiene in alto è il lavoro. Il talento non ti prepara al fallimento, il lavoro sì”. Per lui, la vera formula vincente è un equilibrio tra dote naturale e sacrificio quotidiano, con la costanza come chiave per migliorarsi sempre.