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Il soprannome, la fede, Vialli e una promessa: Belotti si racconta

L'attaccante della Roma si racconta a Cronache di spogliatoio: "Questa lettera voglio terminarla su un altro foglio. Ci scrivo una promessa: se a fine stagione riuscirò a esaudirla, la mostrerò"
Mercoledì 29 marzo 2023
In attesa di capire se sarà ancora lui o meno il centravanti titolare della Roma in questa fase finale della stagione, Andrea Belotti nel frattempo ha deciso di raccontarsi in modo diverso rispetto al solito. Con una lettera autobiografica al sito "Cronache di Spogliatoio", dove il Gallo racconta alcuni aneddoti della sua vita. A iniziare proprio dal soprannome...

IL GALLO — L'esultanza, i gol, la cresta. Ecco perché Belotti gioisce in quel modo. Ed ecco da dove nasce il suo soprannome. "Il mio amico Juri aveva un bar a Calcinate, il paese in cui sono nato. Da piccolo giocava a calcio e segnava in tutti i modi, ma aveva una testa... Di cognome faceva però Gallo e quando segnava esultava con la cresta. All'epoca avevo 18 anni e giocavo in C, all'Albinoleffe. Un giorno si libera per venirmi a vedere e mi dice: ‘Se segni promettimi di esultare con la cresta in mio onore'. Dopo due minuti faccio gol e mimo la cresta, ma Juri è entrato in ritardo: mentre parcheggiava ha sentito il boato dello stadio. Insomma, ho fatto la cresta per... nessuno". Ma da quel giorno l'esultanza è rimasta ed ora per tutti Belotti è il Gallo.

LA FEDE — Nell'infanzia di Belotti c'è una figura che resta fissa, quella di Don Sergio, che gestiva l'oratorio dove passava pomeriggi interi. "Lì c'era sempre qualcuno che giocava. La domenica, appena finito il catechismo, andavamo in chiesa per la benedizione. E poi in campo, anche per 3-4 ore. La chiesa mi ha accompagnato: facevo il chierichetto, a casa i miei genitori mi hanno trasmesso fin da piccolo la fede. È un qualcosa che da sempre vive dentro di me. Io credo veramente: ognuno è libero di farlo con la potenza che vuole, non è un obbligo. Ho avuto l'onore di incontrare Papa Bergoglio con la Nazionale, mi piacerebbe tornare a far benedire i miei figli. Ma per farvi capire: io ho due idoli. Il primo è Giovanni Paolo II, nessuno ha fatto quello che ha fatto lui. Il secondo è Don Sergio, il parroco di Calcinate: una persona che ha il dono di farsi voler bene, perché oltre alla religione e alla fede mi ha trasmesso quei valori che reputo fondamentali". Poi Belotti elenca tutta la serie di valori in cui crede: fede, fedeltà, sincerità, lavoro, destino. E gol, determinazione, abnegazione. "Il pallone mi fa esprimere tutto ciò che ho dentro, basta guardare come ho abbracciato Spinazzola dopo il gol al Salisburgo. Sono esploso, l'ho travolto".

IL CALCIO — "Il nostro mondo è talmente strano che passi da ultimo a essere considerato il numero uno". Ma se Belotti non avesse giocato a calcio? "Magari avrei continuato con gli studi. Quando sono arrivato all'Albinoleffe, facevo il mediano. Mi spostarono esterno sinistro, poi mister Pala mi trasformò in attaccante. Ha cambiato la mia vita con un'intuizione. Ed è stato lui anche a portarmi in Nazionale. Il ct dell'Under 20 Evani cercava attaccanti. Pala gli consigliò il mio nome e da lì il mio rapporto con l'azzurro non si è mai fermato fino alla notte di Wembley. Sono caduto a picco con le mancate qualificazioni ai Mondiali, ma ho pianto quando abbiamo vinto l'Europeo. Qualcosa di unico. Il gruppo di giocatori era di livello, mister Mancini è stato bravissimo. Ma una persona fondamentale è stata Gianluca Vialli: uno pronto ad aiutarti sempre, quando invece era lui che aveva bisogno di aiuto. Lui aveva il dono di saperti entrare dentro, con lui sono rimasto a parlare anche per 5 ore. Una grande persona, che vive ancora dentro di noi".

LA FAMIGLIA — E poi ci sono i ricordi di quando era piccolo e le ansie da grande. Sempre con la famiglia alle spalle. "Ho sempre reso felice il mio paesino con i gol. Dopo ogni rete mia nonna portava al campo pane e salame e si era creato quasi un rito: finita la partita, tutti correvano in tribuna per mangiare. Tranne io che dovevo farmi la doccia e quando arrivavo era finito tutto. La mia famiglia ha sempre cercato di alleggerirmi i momenti: belli o brutti che fossero. Come nell'estate dei cento milioni, il mio nome era ovunque...". La chiusura con una promessa: "Ho un quaderno accanto a me. Questa lettera voglio terminarla su un altro foglio. Ci scrivo una promessa: se a fine stagione riuscirò a esaudirla, la mostrerò". Ed allora l'attesa è tutta qui, per il finale. Di stagione. E della lettera...
di Andrea Pugliese
Fonte: Gazzetta dello Sport
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