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Salutando, Totti disse: "Ho paura". Adesso sappiamo perché...Dubbi e veleni che hanno divorato il re

Tutto quello che c'è da sapere sull'addio dell'ex capitano giallorosso dopo trent'anni di amore. Come nel "Ritratto di Dorian Gray" ad un certo punto deve essersi guardato allo specchio scoprendo di essere diventato ciò che aveva sempre detto di non voler essere
Domenica 16 giugno 2019
Il mondo ha denti d'acciaio, il sorriso ingannatore e il pugnale dietro la schiena. E se questa verità malinconica ognuno di noi la vive ben presto sulla propria pelle, se ti chiami Francesco Totti arrivi a scoprirla quando il tempo comincia a rubarti il respiro. Dietro l'addio alla Roma, in fondo, c'è anche questo. Trent'anni d'amore, vissuti nell'adorazione laica di una città, sono stati un anestetico formidabile verso il male di vivere che alla fine, in qualche maniera, cresce fino a presentarti il conto. Il capitano di una generazione, d'altronde, aveva iniziato a capirlo quando la sua parabola calcistica stava giungendo alla conclusione.

Lasciamo da parte Spalletti e le sue ombre, la rugginosità palese nel rapporto con la dirigenza, persino la sorprendente «ingratitudine» di una parte della tifoseria (sì, un tempo a Roma c'erano gli spallettiani) quando il fiato cominciava a diventare corto e i muscoli di vetro. Il tramonto della sua carriera di artista del calcio, sublimato in quell'addio che ha fatto il giro del mondo, lo aveva fiaccato nell'anima per quello che certificava: il senso della fine e la necessità di un rito di passaggio. Totti infatti due anni fa, in uno dei momenti più struggenti del suo discorso alla gente, lo aveva detto chiaramente: «Adesso ho paura». Niente poteva essere più sincero, niente poteva rendercelo più fratello.

Da quel giorno, chi lo ha osservato dall'esterno ha dovuto fare attenzione soprattutto ad una cosa: evitare i luoghi comuni. Si può essere ricchi, sposati con una bella moglie, avere una splendida famiglia e godere dell'affetto di tutti coloro che ti circondano, e nello stesso tempo scoprire come i timori che pensavi di aver addomesticato col semplice trascorrere del tempo, in realtà erano un grumo nero addensato nel pensiero, pronto a trasformarsi in un rancore sordo verso chi mostrava con sussiego la tua inadeguatezza verso la seconda parte della storia romanista, quella in giacca e cravatta. Chissà quante volte Francesco avrà riattraversato quella linea d'ombra che lo riportava con la memoria ai giorni del calcio giocato. Belli a prescindere, perché i problemi si risolvevano con un assist, un tacco, un tiro che scuoteva la rete e l'anima della città. Quello che a quasi tutti era impossibile, al Capitano veniva naturale. Niente a che vedere con ciò che è venuto subito dopo. Che fare? Un corso da allenatore? Sì, no, magari più tardi. Da direttore sportivo? Più avanti. E l'inglese che serve per parlare col mondo del calcio fuori dalle Alpi? Verrà anche quello. Il problema è che nella vita ciò che non afferri, viene preso da altri.

Gli uomini in grigio (copyright Ranieri), quelli che sanno far di conto, hanno conoscenze giuste, fanno un passo indietro e uno di lato. Non nascondiamolo: ovunque essi siano - Boston, Londra, Trigoria, ma anche Milan, Torino e Napoli - è gente di certo non immacolata, ma indispensabile a far funzionare qualsiasi club. Ciò non toglie comunque che - a dispetto delle fazioni - l'invisibile duello rusticano che ha diviso negli anni Totti e Baldini, giudicato a mente fredda sembra venato da una comune immaturità che stupisce.

Forse per questo in Francesco, negli suoi 24 mesi vissuti da dirigente, la voglia di evasione è stata evidente. C'è una partita da giocare, dell'erba da calpestare, un cucchiaio da servire? Dalla Russia al Qatar, lui ha risposto presente, perché probabilmente quello è stato l'unico modo per acquietare quel senso di frustrazione che gli si agitava nel petto. Non è escluso che abbia peccato d'ingenuità, credendo davvero che sarebbe bastato indicare la bravura o meno di un calciatore - come se fosse uno scout di alto livello - per materializzare un percorso da direttore tecnico. Non è andata così, e persino i suoi stessi tifosi non hanno mai avuto certezze sulla sua grandezza da manager, anche se tutti di sicuro hanno pensato: visti i risultati degli altri, almeno lasciate provare lui.

Quel giorno non è mai arrivato. Come nel «Ritratto di Dorian Gray» ad un certo punto Totti deve essersi guardato allo specchio scoprendo di essere diventato ciò che aveva sempre detto di non voler essere: solo una bandiera buona da sventolare ai sorteggi e in tv. Troppo poco per uno che voleva essere grande con la Roma, scoprendo però che, se da calciatore almeno conosceva la strada, da dirigente avrebbe dovuto impararla. Col rischio di sbagliare, naturalmente, e vedendo così incrinare agli occhi della sua gente quel senso di perfezione che trent'anni di calcio finora non sono riusciti a scalfire. Se è vero che gli eroi muoiono tutti giovani, forse la gioventù di Francesco termina davvero solo adesso. Davanti ha mille possibilità, ma anche tante sirene ingannevoli e feroci. Noi però restiamo ottimisti. Un capitano, in fondo, non perde mai la rotta. E allora, chi meglio di lui?
di Massimo Cecchini
Fonte: Gazzetta dello Sport
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