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Rocca, Spalletti e... papà. Così De Rossi ha imparato il mestiere

L'attuale c.t. è stato il tecnico più importante per De Rossi, Capello gli ha insegnato l'equilibrio, Lippi a non arrendersi. Voeller gli ha ricordato l'amore per il calcio, con Ranieri e Zeman alti e bassi
Giovedì 18 gennaio 2024
Un predestinato. Ma perché tutti lo raccontano così? La risposta è semplice: perché ci sono doti naturali che il tempo e i buoni maestri possono affinare, amplificare. E De Rossi di ottimi maestri, nel corso di una carriera strepitosa, ne ha avuti tanti. Studiandoli sin dai primi passi, perché la curiosità, come diceva Goethe, è alla base della conoscenza. Ed è così, con il naso sempre all'insù, per respirare meglio l'aria del "suo" mare, che Daniele De Rossi ha cominciato - all'Ostiamare - a immaginare. E immaginarsi calciatore, grazie anche al suo primo allenatore, che certo non ha avuto la popolarità di tutti quelli che poi si sono avvicendati. Ma Roberto Di Filippo, che lo ha adottato nella sua scuola calcio, gli ha insegnato soprattutto a vivere il pallone con spensieratezza. Era un bambino Daniele, esile, così magro, da far giocare sull'esterno, dove contano agilità e prontezza: un cerino biondo, che si infiammava lì in attacco, attento e scrupoloso senza mai pretendere di essere e diventare il primo della classe.

LA TRASFORMAZIONE — La trasformazione La sua trasformazione, qualche chilo e parecchi centimetri di più, si è però compiuta grazie a Mauro Bencivenga, che negli Allievi della Roma un giorno lo prese un po' in disparte. Daniele, intimidito, pensava chissà cosa. Invece - e non poteva ancora saperlo - quel giorno stava raccogliendo il suo biglietto fortunato. «Da oggi farai il centrocampista». Lezione solo apparentemente facile. Perché alla base, ma lui superò l'esame a pieni voti, c'era la necessità di pensare molto più velocemente. Perché è lì che i tempi si dimezzano e gli spazi si fanno praterie.

LA ROCCIA ROCCA — Un'altra lezione che ha poi tenuto a mente è stata quella di Francesco Rocca, che ha incrociato come commissario tecnico dell'Under 20. Da lui ha assorbito la sacralità e il rispetto per la professione, oltre alle prime e utili nozioni - da un mago anche della preparazione - sulla necessità di puntare sempre alla perfezione atletica. Un indirizzo che non ha smarrito neppure a distanza di vent'anni. Se ha un dubbio, Daniele sa sempre dove e a chi rivolgersi: «Scusi, mister. Mi spiega questa cosa...».

DON FABIO — Don Fabio Perché, lo dicevamo, De Rossi è sempre stato un professionista nella testa, prima ancora che con la penna in mano per una firma sul contratto. Che gli ha garantito, perché è giusto che succeda, Fabio Capello: è stato lui a farlo debuttare prima in Champions League e poi in campionato. E mille volte gli ha ricordato quello che più conta anche nel pallone: l'equilibrio. In campo, perché se sbagli non c'è tempo per recuperare, e fuori, perché ci sono grandissimi talenti che si sono persi per inseguire l'emozione di un momento.

CAMPIONI DEL MONDO — Ma in questa galleria di ottimi maestri ce ne sono stati tanti altri, che hanno influenzato il suo cammino. Claudio Gentile, con cui ha vinto una medaglia olimpica, Rudi Voeller che in pochi mesi gli ha ricordato l'amore ed il rispetto per il calcio, Bruno Conti che non è stato solo il suo allenatore per una stagione, ma piuttosto il suo riferimento per tutte le stagioni. D'altronde è stato lui a scoprirlo, in uno stage a Nettuno, "fuori casa" rispetto alla sua Ostia, finendo per rimanere impressionato dal carattere di quel ragazzino che non ci stava a perdere. Ma Conti, per tutta la sua vita in giallorosso, gli ha insegnato a lavorare sempre un tono sotto. Un campione del mondo, sembrava dirgli Bruno anche con i suoi silenzi, deve dimostrare di esserlo ogni giorno. Dunque niente presunzione. E così anche Daniele - con Marcello Lippi - ha poi vinto il titolo più bello. Nel 2006, dopo un avvio shock, con le quattro giornate di squalifica per una gomitata a McBride - uno dei suoi errori -nella sfida con gli Stati Uniti. Ma Lippi, in quella circostanza, gli ha insegnato che - dopo essersi scusato - non bisogna arrendersi. E De Rossi lo ha capito, lo ha seguito, tornando in tempo per giocare la finale e segnare uno dei rigori decisivi. Ma è Spalletti che, forse, più di tutti lo ha influenzato e da cui ha più imparato. La velocità del giro palla, la centralità nel gioco, i triangoli in continuo movimento, l'individualità al servizio dell'orchestra. Dal punto di vista strettamente tattico è stato il maestro più importante. A cui si ispira, al di là del modulo. Perché Daniele ha in testa la difesa a 3, mentre Spalletti non derogherebbe mai dai quattro. Anzi, no, i tre e... mezzo. E questo potrebbe essere, anche nella Roma di De Rossi, il compromesso.

GLI ALTRI GRANDI — Nella galleria non potrebbero mancare Prandelli, Luis Enrique, anche Zeman (con cui ha avuto una serie di alti e bassi), Garcia, Conte, Ranieri - che è arrivato a metterlo in panchina nell'intervallo di un derby, spiegandogli che la squadra viene sempre prima di tutto - e Di Francesco. Fino al c.t. Ventura che forse gli ha tirato fuori, inconsapevolmente, il grande istinto dell'allenatore. Quando, durante la famosa partita con la Svezia, gli chiese di togliersi la tuta e di entrare velocemente in campo, beccandosi una risposta gelida, che la tv ha immortalato. «Ma stiamo perdendo... Che c'entro io? Metti piuttosto Insigne». Insomma, una carriera in cui ha imparato tanto. Ma a cui, più di tutti, lo ha introdotto papà Alberto, mago della Primavera, e allenatore a tempo pieno. Che ogni giorno gli ha spiegato un po' di calcio e un po' di vita.
di Alessandro Vocalelli
Fonte: Gazzetta dello Sport
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