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Cristante: "All'esterno forse mi sottovalutano. Vogliamo guadagnarci la Champions"

"Mourinho è un grande. Resto a Roma finché mi tengono"
Sabato 29 luglio 2023
ALBUFEIRA Cristante viene dalla terra di Pier Paolo Pasolini, il Friuli, ha mosso i primi passi nella squadra fondata dallo scrittore, il Casarsa. Si chiama Bryan, per via del papà canadese, cresciuto con la passione per le canzoni di Bryan Ferry. «Ma del Canada io non ho quasi nulla, ci ho vissuto solo tre anni, appena il tempo di imparare qualche parola in inglese dalla nonna». Italiana anche lei. «Partirono per il Canada per ragioni di lavoro, mio padre è nato lì. Io mi sento friulano al novanta per cento, italiano a tutti gli effetti».

Il Friuli terra di grandi calciatori, per non fare torto a nessuno, ne prendiamo tre a caso: Nereo Rocco, Fabio Capello e Dino Zoff. Lei ce l'ha un po' la tempra friulana.
«Si, siamo un popolo di lavoratori, dedito alla fatica, tosto, serio. Quando si tratta di mettere il cento per cento, ci siamo sempre».

Ha mosso i primi passi nel Casarsa, uno dei fondatori è stato Pasolini, pure lui per buona parte friulano.
«Ho visitato la sua casa, che oggi è un museo a lui dedicato».

Lei è un anti-divo, questo al giorno d'oggi è un problema o ne va orgoglioso?
«Sono fatto cosi, non mi piace stare al centro dell'attenzione, non amo i social. Mi viene naturale. Non penso sia un problema».

Come si pone, invece, davanti ai suoi colleghi più social?
«Ognuno fa ciò che vuole, mi rapporto con chiunque. Uno deve essere se stesso».

Essere "personaggio", però, aiuta.
«Io non sono stato penalizzato nella mia carriera. Magari qualche articolo in più aiuta, ma non ci do peso».

Essere leader della Roma è stata una conquista?
«Lo trovo normale, è una questione di età, di esperienza. Oggi posso prendermi responsabilità diverse, conosco meglio Roma, sento il bisogno di aiutare i più giovani, trasmettere una certa mentalità che è stata trasmessa a me».

Leader parlante o silenzioso?
«Parlo, eccome. Mi faccio sentire, sono un rompiscatole in campo. Mi trasformo quando gioco».

De Rossi disse: «Servono undici Cristante». Ci ripensa ogni tanto?
«Si, certo. Mi ha onorato, reso orgoglioso di giocare con lui e in questa piazza, che ha rappresentato al cento per cento. È stato l'emblema della passione, capace di trasmettere a noi giovani la passione per la maglia. Dire quelle parole il giorno del suo addio alla Roma ha avuto un peso. E lo ringrazierò sempre».

Da giovane era al Milan, poi la fuga al Benfica. Un'occasione persa?
«No, quell'esperienza all'estero mi ha formato. Ho capito il mondo che c'è fuori dall'Italia, una scelta che rifarei. Ho imparato il portoghese, ho fatto esperienza, ho conosciuto pure i posti dove siamo qui ora al lavoro. E si sta bene».

Le difficoltà ne ha avute, anche perché aveva solo 19 anni?
«Sono entrato in una cultura diversa, ho dovuto adattarmi. Capire un nuovo Paese, non era facile».

Poi, il ritorno in Italia è stato naturale.
«L'italiano sta meglio in Italia».

Bergamo il trampolino della sua carriera.
«Un ambiente serio, è stata una fortuna trovarsi lì. Basi solide, una presidenza italiana, a gestione familiare. Gasperini sapeva come valorizzare i giovani. Un'isola felice, insomma, dove è stato più semplice crescere».

Si è mai sentito sottovalutato?
«Ci sono due aspetti da considerare. All'esterno forse è così, mi sottovalutano; dentro gli spogliatoi e nel calcio mi sono sempre sentito trattato come meritavo».

Lei un ragazzo equilibrato, le è mai capitato di arrabbiarsi con qualche allenatore?
«Certo, è successo. Varie volte. Lo trovo normale».

Con Mourinho discute?
«Capita, anche se lui sa come prenderci. Diciamo che mi è successo meno».

L'approccio in una grande città come Roma?
«Ci sono pressioni diverse, all'inizio è stato difficile, poi è arrivato tutto quello che mi aspettavo: io metto sempre il massimo, diventa più semplice ritrovarsi. Oggi mi sono un po' innamorato di questa città, per le sue bellezze, per la passione della gente verso la Roma».

Cosa ha di speciale giocare con la maglia giallorossa?
«C'è un'atmosfera particolare, come vivere ventiquattro ore al giorno di calcio. Questo lo senti, più passa il tempo e più è così anche per un calciatore. Poi, cerco sempre di staccare quando sono a casa: ho la mia famiglia, gli amici, i miei cani».

Il monumento di Roma che porta nel cuore?
«Facile: il Colosseo».

Cosa ha Mourinho di speciale?
«Sa tutto prima degli altri. Ha la visione giusta delle situazioni, sa cosa fare e come comportarsi sempre. È un grande».

Tra dieci anni come si vede?
«Non ci ho ancora pensato. Di sicuro vorrei avere qualche trofeo in più in tasca».

La questione Arabia. Lì ci si va perché si fa calcio o è solo questione di soldi?
«In questo momento il calcio arabo non è paragonabile al nostro. Bisogna vedere come si evolve o se resta una questione legata a una sola estate. Oggi se mi offrissero di andarci, direi di no. Voglio competere qui. In avanti, chissà, è tutto da verificare».

Il suo ruolo, dopo averne ricoperti tanti, qual è?
«Nei due di centrocampo, il play. Fare il trequartista è stata una cosa estemporanea, anche divertente, ma è un ruolo che non sento totalmente mio».

La Roma con Mou atto terzo riparte dalla rabbia di Budapest?
«Sì. Vogliamo andare avanti nelle coppe e guadagnarci la Champions».

Che serve per trattenere Mou?
«Questo va chiesto a lui».

L'ultimo campionato non è andato bene, colpa solo degli arbitri?
«No, penso che le ragioni siano anche altre. Ad aprile eravamo terzi e in lotta per ogni competizione, ma gli infortuni arrivati tutti insieme ci hanno creato problemi. Io facevo il difensore, i ragazzi della Primavera erano titolari, avevamo un solo attaccante. Non è stato facile».

Budapest è ancora un brutto ricordo per via dell'arbitro, però.
«Ci sono stati episodi controversi, ma ormai è andata».

La Champions, questione necessaria per la prossima stagione.
«L'obiettivo principale è quello».

Per lo scudetto, invece?
«È difficile. A gennaio sapremo qualcosa di più. Sperare non costa. Dobbiamo tornare a giocare la Champions. Vorrei tanto vincerne una».

Più del Mondiale?
«Mah, non saprei. Vincere la Champions con il tuo club forse dà qualcosa in più. Ma al
Mondiale bisogna andare, stavolta non possiamo fallire, non ci sono scuse».

Ha mai pensato di perdere Mancini dopo la mancata qualificazione in Qatar?
«No, anche se so che nella testa di un allenatore a volte girano certi pensieri. Il suo non è un compito facile».

Pochi italiani convocabili, ad esempio.
«Sì, e poi tante partite. I momenti per costruire una Nazionale sono sempre pochi. Ma ora con Mancio volgiamo toglierci altre soddisfazioni».

Un aggettivo per i tre nuovi romanisti.
«Aouar tecnico. Kristensen potente. Ndicka grande forza e un bel sinistro».

Insomma, la Roma si sta migliorando, anche se manca qualcosa?
«Quelli che sono arrivati fino a ora sono bravi e ci daranno una grossa mano».

Lungo ritiro in Algarve, ci sembra che ci si diverta anche, no?
«Siamo un bel gruppo, l'ambiente è tranquillo. Si gioca a carte, Mancini, Spinazzola, Belotti sono i più accaniti. Io mi dedico al ping pong, le mie sfide con Bove».

Dybala è uno che sposta?
«È un fuoriclasse. Quando sta bene, ci fa la differenza».

Quanto starà alla Roma?
«Finché mi tengono. Clima e città fantastici. Ora dobbiamo solo ricaricarci e provare a vincere qualcosa. Con la Champions come obiettivo primario».
di Alessandro Angeloni
Fonte: Il Messaggero
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