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La Parola ai Tifosi
La Roma non si discute, si ama!

273 - Medaglia di Bronzo
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21 aprile 753 a.C. - 21 aprile 2024. Dall’alto del Colosseo...
...2777 anni di storia ci guardano.

Città, regno, impero. In una sola parola: ROMA.

È improbabile che una città possa vantare un effettivo atto di fondazione. Capita di rado, come quando un conquistatore decide di crearne una a suo nome. È il caso di Alessandro Magno, che ne fece letteralmente sorgere da un giorno all’altro almeno quattordici. Dal canto suo Roma, come Atene, fu più probabilmente il risultato di un’aggregazione progressiva di vari villaggi contigui che, per necessità di difesa è di commercio, finirono per stringersi in un’unica comunità guidata dalla più antica forma di governo, la monarchia.
Le parole più sagge al riguardo le scrive lo storico romano Tito Livio in apertura della sua monumentale Ab Urbe Condita: “Non intendo accettare né respingere le leggende, correnti sull’età anteriore alla fondazione di Roma oppure sulla stessa fondazione, perché sono favole poetiche piuttosto che testimonianze sicure sui fatti avvenuti. Concediamo volentieri agli antichi l’usanza di rendere più nobili le origini della città, mescolando i fatti degli uomini con quelli degli dei. E se mai un popolo ha avuto diritto a rendere sacre le proprie origini e legarle alle divinità, questo è il popolo romano.”
I primi a mostrarsi scettici sulla ricca messe di leggende che ricostruiscono la nascita di Roma, dunque, furono proprio gli storici greci e romani che le hanno fatte giungere fino a noi. Costoro vissero in un’epoca in cui qualunque autore poteva scandagliare una moltitudine di fonti leggendarie, fiorite ovunque per giustificare e nobilitare la potenza raggiunta da Roma nel corso dei secoli. È proprio da queste tradizioni mitiche che bisogna partire se si vuole ricostruire la storia della nascita dell’Urbe e capire, confrontando le varie versioni, quanto ci sia di vero nella tradizione che sembra adombrare una sorta di guerra civile tra due fratelli, Romolo e Remo, in precedenza uniti per rendere giustizia alla propria famiglia. (segue)
 
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Quella dei gemelli allattati dalla lupa è probabilmente un mito costruito in età tardo-repubblicana, ma l'esistenza di Romolo o comunque di un re fondatore dell'urbe e la data di fondazione hanno molta probabilità di essere reali. Nella zona dove sarebbe sorta Roma esistevano già importanti insediamenti (cioè il Septimontium, da non confondere con i sette colli). Romolo fonda la "sua" città sul Palatino. Quello è un insediamento su un colle che doveva essere quasi spopolato, ed è per questo che Romolo chiama a popolarlo gente da ogni dove, senza farsi troppi scrupoli sul loro "background" ed è anche da lì che nasce a leggenda, più o meno vera ma secondo me non completamente falsa, del ratto delle sabine, perché in quella città nata in un modo anomalo (normalmente le nuove città nascevano con il rito del "ver sacrum", la primavera sacra, quando un certo numero di coppie giovani venivano mandate via dalla città originaria per fondare un nuovo insediamento e alleggerire così la pressione demografica su quello vecchio). In quei casi, ovviamente, non c'era nessun bisogno di rapire le donne degli altri. Ma Roma nacque in un modo insolito ed ebbe da subito una storia fuori dal comune. La vera impresa di Romolo fu quella di riunire tutte le tribù che vivevano sui colli vicino, in un caso lo fece uccidendo il re rivale, ed è così che Roma, fin da subito, fu un centro già notevolmente popolato e importante. Alla sua prosperità contribuirono due fattori strategici: trovarsi proprio nel punto in cui era possibile attraversare il Tevere, e quindi essere il crocevia dei commerci fra nord e sud della penisola, e disporre delle saline di Ostia. A quei tempi il sale era l'oro bianco, il mezzo indispensabile per gli allevatori di maiali della vicina Umbria per conservare le carni, e disporre di sale voleva dire quindi accumulare notevoli ricchezze.
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10.

Sebbene il mito di Romolo e Remo sia sopravvissuto attraverso i secoli, le evidenze storiche e archeologiche a conferma della loro leggenda sono assai scarse. Il successo e la longevità di un popolo, di una civiltà, o di un personaggio, nei secoli producono miti e leggende con un preciso scopo di plasmare una genesi e un passato da predestinati, che legittimino il diritto al predominio e alla fama. Questo vale a maggior ragione per un’entità politica come Roma, sopravvissuta attraverso varie reincarnazioni (monarchia, repubblica, principato, impero bizantino) per oltre due millenni, dal 753 a.C., quando in Oriente imperavano gli assiro-babilonesi, al 1453, l’anno della caduta di Costantinopoli, alla vigilia della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo.

Per saperne di più:

SAGGI
Enea lo straniero. Le origini di Roma.
Giulio Guidorizzi. Einaudi, Torino, 2020.

Remo, Romolo e la profezia di Vezio
Giuseppe Di Chiera.
Nemapress, Roma, 2015.

LIBRI PER BAMBINI
Romolo e Remo. Che mito!
Edizione a colori
Hélène Kérillis.
Gallucci editore, Roma, 2023.
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9.

Le altre origini di Roma

Questa è la storia di gran lunga più accreditata sulla nascita dell’Urbe, quella che ha oscurato tutte le altre in forza, soprattutto, della sua epicità e della ricchezza di sfide e faide che la vicenda contiene. Eppure Plutarco, così come prima di lui Dionigi di Alicarnasso, afferma che ai suoi tempi circolavano altre voci che volevano il nome della Città eterna derivato non da Romolo, ma da una profuga troiana, una certa Roma, appunto, che avrebbe spinto la sua comunità a insediarsi stabilmente sulle coste laziali, convincendo le donne a bruciare le navi per impedire agli uomini di riprendere il mare. Secondo Dionigi, Roma avrebbe sposato Latino e partorito Romolo e Remo, che avrebbero chiamato così la città in onore della madre; oppure il nome deriverebbe da rhome, la parola con cui i pelagi, indigeni del mar Egeo e conquistatori dell’area laziale, esprimevano il concetto di “forza”.
Anche Plutarco raccoglie numerose tradizioni, molte delle quali volevano Romolo e Remo addirittura figli o nipoti di Enea.
Si parla anche di tale Romano, presunto figlio di Ulisse e Circe; o di una Roma nipote di Ercole, fondatore di una città in diverse tradizioni, e di un re dei latini di nome Romi che avrebbe cacciato gli etruschi. La più curiosa fa risalire la nascita dei gemelli alla crudeltà del re degli Albani Tarchezio, che avrebbe visto emergere dal focolare della propria reggia il fantasma di un fallo gigante.
Secondo questa bizzarra interpretazione un vaticinio predisse al re che se una vergine si fosse unita a quell’essere ne sarebbe nato un figlio famosissimo “che si sarebbe distinto per virtù, fortuna e forza”.
Il sovrano ordinò quindi alla figlia di congiungersi col fantasma, ma la ragazza concesse il dubbio privilegio alla propria serva. Scoperto l’inganno Tarchezio stava per condannare a morte le due donne, ma la dea Vesta intercesse per loro.
Furono condannate a rimanere confinate in casa a tessere una tela finché non l’avessero terminata, ma durante la notte la dea faceva disfare loro ciò che avevano intrecciato il giorno. Da qui la storia si dipana come le altre: quando nacquero i due gemelli, il re li consegnò a un certo Terazio con l’ordine di ucciderli, e quello lì depose lungo il Tevere, dove una lupa si prese cura di loro, permettendogli in seguito di vendicarsi di Tarchezio. (segue)
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8.

Altre fonti designano invece un certo Celere come uccisore di Remo, e la rapidità con cui sarebbe fuggito in Etruria subito dopo diede il nome al concetto stesso della velocità. Nella contesa - più probabilmente una guerra civile, come lascia più chiaramente intendere Dionigi, cade anche Faustolo, che avrebbe provato a fare da paciere.
A quel punto Romolo, dopo aver seppellito il fratello sull’Aventino, è libero di completare la fortificazione sul Palatino, nucleo primigenio della città cui dà il suo nome. E poco importa se lo abbia fatto subito o, come afferma Dionigi, dopo un lungo periodo di prostrazione da cui sarebbe uscito solo grazie all’intervento di Acca Larenzia.

(segue)
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7.

Un solo re

Da quel momento, comunque, iniziano i guai. Nel Lazio non vige la diarchia, come a Sparta, e dunque il re può essere solo uno. “I due erano gemelli, quindi l’età non serviva come discriminante” per stabilire chi dovesse cingere la corona, precisa Tito Livio. Serve affidarsi agli dei, è una scena molto caratteristica e colorita è utile, probabilmente a mascherare una vera e propria guerra civile, che dovette inevitabilmente sorgere tra i due pretendenti al trono che vantavano gli stessi diritti. La tradizione affida la scelta agli auspici tratti dall’osservazione degli uccelli, uno dei modi più diffusi per conoscere il volere divino.
Secondo un filone alternativo, invece, il vaticinio sarebbe stato stabilito da Numitore, cui i due fratelli si erano rivolti per dirimere le loro controversie. In ogni caso, ciascuno sceglie un monte dove vorrebbe fondare la sua città: Romolo il Palatino e Remo l’Aventino. Quest’ultimo fa tracciare col bastone all’augure - l’interprete dei presagi divini - un solco nel terreno, che rappresenta un tempio in cui trarre gli auspici. Il primo ad avvistare i volatili, uno stormo di sei avvoltoi, è Remo, che già canta vittoria quando Romolo né scorge dodici. Sorge dunque una nuova disputa su chi gli dei abbiano designato re: colui che ha visto per primo gli uccelli o colui che ne ha visti di più?
Qualcuno dei cronisti antichi lascia pure intendere che Romolo avesse mentito sul numero; o almeno, era ciò che Remo pensava. Dionigi di Alicarnasso racconta che Romolo tenta di ingannare il fratello chiamandolo sul Palatino per annunciargli di aver visto per primo gli avvoltoi, e che Remo ne vede sei mentre va da lui.
Proprio quando questi chiede al gemello quanti ne abbia visti davvero, ne appaiono dodici e a quel punto Romolo afferma di aver visto proprio quelli, in precedenza. Sta di fatto che ne nasce uno scontro tra sostenitori delle opposte fazioni, e nella mischia Remo ha la peggio.
L’altra tradizione, citata anche essa da Tito Livio e con poche varianti, da Dionigi di Alicarnasso, ascrive la morte del gemello a una sua provocazione.
Remo avrebbe scavalcato il fossato che il fratello stava scavando per delimitare i contorni della sua città - o solo il solco che aveva tracciato per terra - e Romolo non avrebbe esitato a ucciderlo gridando: “Patisca la stessa sorte chiunque abbia a oltrepassare le mie mura!” (segue)
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6.

Recuperare Roma

Numitore non aveva ancora le idee chiare sulla sua identità, ma si rese conto di avere di fronte un giovane determinato che avrebbe potuto aiutarlo a recuperare il regno. Nel frattempo Romolo, che aveva radunato schiere di pastori e mandriani, schiavi e fuggiaschi per liberare il fratello, raggiunse Numitore e, confermando la storia di Remo, gli permise di mettere tutti i tasselli al proprio posto. Il sovrano spodestato riconobbe i nipoti, ora motivati a intraprendere per conto del nonno la più prestigiosa delle razzie, contro la rocca di Amulio. Nel frattempo, però, il re aveva estorto la verità a Faustolo, e cercò inutilmente di far arrestare i gemelli e Numitore. I giovani condussero all’attacco il loro piccolo esercito: Remo agì dall’interno della città e Romolo dall’esterno. La loro manovra ebbe successo, permettendogli di conquistare la reggia, uccidere l’usurpatore, rimettere il nonno sul trono e liberare la madre, ancora in catene.
Sebbene una versione del mito avesse reso Numitore il salvatore dei gemelli alla nascita, un’altra narra che fu proprio il re spodestato a provocare ad arte la disputa tra pastori per organizzare la rivolta capeggiata dai nipoti.
In sostanza, abbiamo una tradizione che presenta Numitore come vittima imbelle, e un’altra che lo mostra come un uomo astuto che costruisce da lontano la sua vendetta.
In ogni caso, i due giovani non sono interessati ad attendere la morte del nonno per ereditare il trono; sono anzi “presi dal desiderio di fondare una città nel luogo in cui erano stati prima esposti e poi educati”. E poi, gli abitanti di Alba Longa non gradiscono la presenza della marmaglia che i due fratelli hanno radunato per sconfiggere Amulio. D’altra parte, i due giovani si sono costruiti la fama di eroi e in molti sono disposti a seguirli nella speranza di procurarsi ricchi bottini, case più dignitose delle capanne in cui vivono e spazi coltivabili o in cui pascolare le proprie greggi. Quel filone che fa di Numitore il deus ex machina di tutto racconta che in realtà fu il re a fondare una colonia e a inviarvi come principi i nipoti, insieme a tutti gli indesiderati di Alba Longa e dintorni. Infine, c’è anche la possibilità che l’iniziativa rientrasse nella consuetudine, diffusa all’epoca nei mesi primaverili, d’inviare gruppi di giovani a fondare colonie. (segue)
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5.

Anche in questo caso i bambini ebbero salva la vita. La cesta che li cullava finì per arenarsi in corrispondenza del mitico fico ruminale. Secondo alcuni autori quest’albero di fico era noto con tale nome perché vi sostavano le bestie ruminanti, mentre secondo altri indicherebbe la mammella, in latino ruma, che avrebbe anche dato il nome ai due fratelli. L’albero, situato sotto il monte Palatino, avrebbe visto una lupa avvicinarsi ai due neonati per allattarli; in seguito l’animale li avrebbe portati in una grotta chiamata Lupercale dove i due bambini sarebbero stati vegliati anche da un picchio, uccello sacro e legato a Marte, padre dei due neonati. I pastori della zona che assistettero alla scena la interpretarono come un presagio divino.
Tra di essi c’era anche Faustolo, un porcaro di Amulio, che decise di portarli via e di affidarli alla moglie Acca Larenzia; lo stesso Tito Livio, nel raccontare questa versione del mito, lascia intendere che la storia della lupa non sia altro che un modo per nascondere il vero ruolo della donna, una meretrice.
A Roma, infatti, le prostitute che lavoravano nei lupanari erano note come lupae, lupe.
Esiste anche un’altra versione, riferita da Dionigi di Alicarnasso, secondo cui i due bambini sarebbero stati affidati a Faustolo direttamente da Numitore, che avrebbe sostituito i figli di Rea Silvia con altri due neonati inducendo Amulio a farli uccidere.
In ogni caso Romolo e Remo crebbero robusti e ardimentosi, distinguendosi nelle razzie ai danni dei villaggi vicini, che caratterizzavano le comunità laziali dell’epoca. Erano sempre in prima linea nelle faide tra pastori di Amulio e Numitore, che sconfinavano o si rubavano le greggi a vicenda, fino a quando Remo cadde in un’imboscata e venne catturato dagli uomini di Numitore. Questi era tenuto a sottoporlo al giudizio di Amulio, ma il re glielo riconsegnò affinché fosse punito.
Numitore volle vederci chiaro sulle origini del condannato, così Remo, secondo Tito Livio, gli raccontò quel poco che sapeva della propria storia con queste parole: “Nulla io ti nasconderò; mi sembra infatti che tu ti comporti da vero re, più di Amulio. Tu ascolti e interroghi, prima di punire, l’altro consegna al carnefice senza interrogare”. (segue)
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In ogni caso il figlio di Enea diede vita a un stirpe longeva che si sarebbe protratta per diverse generazioni. Secoli dopo Proca, undicesimo o dodicesimo discendente di Ascanio, escogitò un curioso quanto illusorio sistema per far cooperare i suoi due figli nella gestione del regno. Al primo, Numitore, lasciò in eredità il suo regno; al secondo, Amulio, concesse il tesoro reale. Ma un regno senza soldi non vale nulla, mentre i soldi possono far acquisire un regno, e così, inevitabilmente, si giunse alla guerra civile che tanto aveva cercato di scongiurare Proca. Amulio riuscì a impossessarsi del trono riducendo il fratello a un ruolo subalterno.
Come precauzione per scongiurare qualsiasi eventuale minaccia dinastica futura, decise di uccidere il nipote Egesto e di obbligare la nipote Rea Silvia a divenire vestale per condannarla alla verginità perpetua.

Discendenti di Marte

Secondo quanto racconta Tito Livio, però, i piani di Amulio non andarono come previsto. Infatti Rea Silvia, sostenendo di essere stata posseduta dal dio Marte, partorì due gemelli. Secondo altre versioni si trattò di uno stupro. In ogni caso, commenta lo storico, “certo non ci furono divinità o uomini capaci di mettere al riparo lei e i figli dalla crudeltà del re”. Si racconta che Amulio in preda all’ora, intendesse seppellire viva la nipote macchiatasi dell’orribile colpa di aver violato il voto di castità delle vestali.
Tale castigo in realtà era un’usanza consolidata nella Roma repubblicana, ma di certo non ai tempi di Amulio e Numitore. Secondo il mito, comunque, il re cedette alle pressioni della propria figlia e fece mettere Rea Silvia in catene. Poi ordinò che i neonati venissero annegati. I suoi sgherri, però fecero un lavoro approssimativo, limitandosi a poggiare la loro cesta nell’acqua stagnante rimasta lungo la riva del Tevere dopo una recente esondazione. Un’immagine, questa, cui le tradizioni dei popoli antichi ricorrono di frequente per dimostrare che certi grandi personaggi erano predestinati e godevano della protezione degli dei; prima dei due gemelli, per esempio, erano stati “salvati dalle acque” anche Mosè e Sargon di Akkad. (segue)
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3.

Già con da Varrone era finanche stabilita una sorta di data ufficiale della fondazione dell’Urbe, che corrisponderebbe alla resa dei conti tra Romolo e Remo, ovvero il 21 aprile del 753 a.C. Tale data è stata ricavata attribuendo trentacinque anni di regno a ciascuno dei sette re prima dell’inizio della Repubblica, individuato dall’erudito nel 509 a.C. Altri autori hanno prodotto calcoli diversi, ma la cronologia di Varrone ha finito per prevalere.

Antenati troiani

Tutto ebbe inizio con Enea, l’eroe troiano che fuggì dalla città in fiamme con il vecchio padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio, o Iulo, al fianco. L’anno della sua fuga sarebbe il 1184 a.C., oltre quattro secoli prima del mito di Romolo e Remo; ma nelle leggende il tempo scorre veloce... o non scorre affatto. Quando Augusto, tramite Mecenate, incaricò Virgilio di comporre un poema che celebrasse le origini della gens Iulia e della restaurazione augustea, il poeta narrò le peregrinazioni dell’eroe troiano e le rese straordinariamente simili a quelle di Ulisse. Alla fine del suo viaggio Enea sarebbe approdato sulle coste italiche e, nei territori corrispondenti all’area laziale, avrebbe ingaggiato una lotta con i popoli autoctoni, finendo per poi stipulare la pace sancita dal suo matrimonio con la figlia del re Latino, Lavinia, e dalla fondazione di un nuovo insediamento, Lavinio.
Il mito prosegue con le gesta di Ascanio, o Iulo, - non è dato sapere se fossero una sola persona o i due figli di Enea avuti da Creusa a Troia e Lavinia nel Lazio - che trent’anni dopo avrebbe fondato una sua città, Alba Longa, sulla cui identificazione storici e archeologi non hanno mai raggiunto alcuna certezza.
(segue)
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2.

Le prime tracce del mito

In realtà sebbene si riferisca a eventi occorsi tre secoli prima, la vicenda di Romolo e Remo inizia a diffondersi intorno al V secoli a.C. in ambiente greco, evidentemente impressionato dalla straordinaria ascesa di quella che fino a poco tempo prima non era altro che un’anonima cittadina sul Tevere.
Circolava allora la voce che il fondatore dell’insediamento fosse un tale Rhomos, chiamato Romulos dai romani. Nel secolo successivo i due personaggi sembrano coesistere e anzi, col tempo, Romulos diventa il nonno di Rhomos. Altri cento anni dopo, il processo è compiuto: Rhomos non esiste più e al suo posto circola Rhemus, fratello gemello di Romulos. Plutarco, l’autore di una biografia di Romolo vissuto a cavallo tra I e II secolo d.C., afferma che il primo autore a costruire una storia organica sulle credenze riguardanti Rhomos e i suoi discendenti fu, nel III secolo a.C., un certo Diocle di Papareto, seguito a ruota dal contemporaneo Quinto Flavio Pittore, della cui opera, gli Annales, sopravvivono pochi frammenti.
Invece, per quanto riguarda l’esistenza dei due gemelli e la loro travagliata vicenda, la testimonianza più antica pervenuta fino ad oggi è costituita da un gruppo statuario raffigurante una lupa che allatta due neonati, eretto in occasione dell’insediamento come edili di due fratelli - Quinto è Gneo Ogulnio Gallo - nel 296 a.C., ai tempi delle guerre sannitiche.
Insomma, la genesi dei due personaggi di Romolo e Remo avvenne in ambiente greco, e per tale ragione nella costruzione del loro mito non potevano mancare riferimenti agli dei dell’Olimpo e al più grande evento bellico dell’epoca preclassica: la guerra di Troia.
In età augustea diversi autori provarono a ricostruire l’epoca saga, da Marco Terenzio Varrone - la cui opera storica, Antiquitates, è andata completamente perduta -, a Dionigi di Alicarnasso - con le sue Antichità romane, di cui sopravvivono i primi nove libri -, fino a Tito Livio e la sua Ab Urbe Condita, - costituita da 142 libri, di cui trentacinque si conservano per intero. Nei primi dieci volumi dello storico romano vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. viene tracciato un quadro coerente del mito della nascita di Roma. (segue)
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