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La Parola ai Tifosi
La Roma non si discute, si ama!

285 - Medaglia di Bronzo
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Le origini degli Ultrà. Una storia a puntate.
1ª puntata.

I gruppi ultrà esistevano molto tempo prima che il termine entrasse a far parte del vocabolario comune. Secondo la tradizione, il primo fra tutti fu la Fossa dei Leoni del Milan (nome che deriva dall’omonimo campo in cui si allenava la squadra). Fondato nel 1968, era nato - come il Commandos Tigre, un altro gruppo ultrà milanista - da uno dei club ufficiali dei tifosi del Milan. Anche allora, la tendenza a separarsi e formare nuove alleanze era frequente: nonostante entrambi i gruppi sostenessero la stessa squadra, ovvero l’AC Milan, erano divisi tra Tigri e Leoni.
Un anno dopo nel 1969, vennero fondate altre organizzazioni: gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria, i Commandos Fedelissimi del Torino, e i Boys (con l’epiteto di “furie nerazzurre”) dell’Inter. Anche i Commandos e i Boys erano nati dalle associazioni ufficiali della loro squadra. Il dibattito su quando la parola “ultrà” sia entrata a far parte del linguaggio comune è ancora aperto: la prima testimonianza del suo utilizzo risale al 1820, e venne usata per descrivere i conservatori monarchici nel periodo della restaurazione francese, anche se ai gruppi della Sampdoria piace credere di essere stati loro a inventare la parola “ultras”, come acronimo di UNITI LEGNEREMO TUTTI I ROSSOBLÙ A SANGUE.
Nel 1970 ci fu una partita al cardiopalma tra Torino e Vicenza. Il Vicenza stava perdendo per 2 a 1 quando negli ultimi cinque minuti di gioco gli vennero assegnati due rigori che ne decretarono la vittoria. Dei tifosi del Toro inferociti seguirono l’arbitro fino all’aeroporto, distruggendo tutto ciò che gli capitava a tiro. Quando un giornalista li definì ultrà, il nome prese piede, e le teste calde del Commandos Fedelissimi decisero di cambiare nome in Maratona Club Torino Ultras Granata.
Da quell’episodio in poi, il termine sarebbe diventato di moda. Nel 1974, due adolescenti di Verona fondarono le Brigate Gialloblù. Nel 1972, Gennaro Montuori, soprannominato Palummella, creò il Commando Ultrà Curva B a Napoli. Nel 1973, nacque la Fossa dei Grifoni del Genoa e, nello stesso anno, anche il Gruppo Ultras della Fiorentina. (segue)
 
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Appendice. 2

“Noi non siamo mafiosi come qualcuno ci vuol far passare, mai nessuno è stato forzato o costretto a far parte dei Boys o a comprare il materiale o ad andare contro la propria volontà. Il direttivo "recinta" con lo scotch il settore sopra lo striscione perché in quel settore noi vogliamo veri tifosi, i ragazzi del gruppo e chi sostiene sempre la maglia (N.B. sul nostro muretto c'è un megafono), tutto questo per aiutare e migliorare il tifo in curva.
Il direttivo dei Boys Roma, invita chiunque abbia qualcosa da dire di persona, e non da dietro la tastiera di un computer, di venire nel nostro settore in Curva Sud per un incontro di chiarimento o nella zona sottostante le scale che portano al nostro settore. Infine, per rinfrescare la memoria, c'è stato detto che noi non siamo ultras... allora ripensate a Inter/Roma, Verona/Roma, Milan/Roma, Parma/Roma, Bologna/Roma, Fiorentina/Roma, Roma/Lazio, Napoli/Roma, Roma/Liverpool... ma questa è un'altra storia. Noi ultras dal 1972... odiati e fieri. Grazie.
P.S. L'invidia è una brutta bestia.”
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Appendice. 1

“I "Boys Roma Ultras 1972" in seguito alle numerose infamanti voci sul proprio conto e sulla mentalità del gruppo comunicano che il tesseramento della stagione 2001/02 consente al tifoso che lo sottoscrive di ricevere una tessera di appartenenza al gruppo e una sciarpa in lana la quale è numerata e non viene messa in vendita dato che è un elemento di distinzione come veniva fatto in passato. Sempre riguardante a ciò che qualche malinformato ha scritto sul sito degli ASRU, sul muretto dei "Boys 2001" (come ci hanno definiti), figure sinistre come "Peppone" e "Mortadella" non fanno parte di noi e noi non vogliamo che ne facciano parte. Per quanto riguarda il Sig. "Peppone", se non è mai stato allontanato dal muretto, è solo perché lui veniva da noi con il suo bambino e nessuno di noi compreso il capo, e tra la curva, si è permesso di cacciarlo davanti il bambino (N.B. in occasione dell'incontro Roma/Real Madrid, il Sig. Peppone è stato allontanato dal muretto dei Boys dal capo del gruppo. Non serve far passare i ragazzi del gruppo, e chi ne vuole far parte, da "zingari" visto che noi non abbiamo mai assunto tali comportamenti e soprattutto non ne abbiamo mai portato nessuno in trasferta come qualcuno.
Per quanto riguarda il famoso "fattore economico", che viene sempre citato, il guadagno del nostro materiale venduto e del tesseramento, viene reinvestito per il gruppo, (e non viene utilizzato a scopo personale) vedi striscioni nuovi, coreografie, aiuti ai carcerati, striscioni, torce, nuovo e sempre originale materiale originale (vedi materiale con Lupin e vedi anche che il materiale del gruppo è quello che di più viene portato dal tifoso di curva e non) e comunque sia, non sono mai stati rubati o estorti soldi a nessuno... (segue)
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Conclusioni. 5

Alla fine non c’è tanta differenza dal creare un partito politico. Differenti sono gli scopi: caos al posto di ordine e ribellione alla disciplina dei padri.
Il tifo per la squadra preferita, diventa il pretesto per sfogare la rabbia repressa dalla severità casalinga.
La virilità, prerogativa del maschio, viene messa ancor di più in risalto quando si fa parte di un branco, nel quale ogni individuo, dal leader all’ultimo uomo, apprezza quella libertà di poter infrangere ogni regola, senza discernere più da ciò che è bene o male, perché in ogni tifoso c’è un potenziale ultrà.
C’è stato in me che ho frequentato la Curva Sud, c’è ancora quando provo sentimenti di odio nei confronti della Lazio.
È quella parte animale e primitiva di noi esseri umani che è relegata nel nostro subconscio, domata dalla civilizzazione ma che esce fuori quando perdiamo il controllo dei nostri nervi, esplodendo in moti di ira.
Lo stadio per alcuni è ritrovare quella parte animale, liberandosi in un urlo liberatorio di quella parte ingessata della vita quotidiana. Una catarsi purificatoria per poi tornare a riprendere il controllo di se stessi una volta finiti i giochi nell’arena.
La valvola dello sfogo è stata aperta, ma adesso bisogna chiuderla.
Siamo esseri umani, non belve da fiera.
Mai oltrepassare quella linea rossa, mai andare oltre..
Chiudo mettendo in appendice il comunicato dei Boys del 2001-2002.
(segue)
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Conclusioni. 4

Eppure se è vero che nessuno in curva ti chiede la carta d’identità, salta all’occhio la diversa estrazione sociale.
Non tanto dal modo di vestire, ma dal modo di parlare, dal tipo di educazione ricevuta in famiglia e si, anche dalla postura.
Purtroppo nonostante allo stadio, in curva, in questo caso tra gli ultrà, ci si senta tutti uguali, perché uniti dalla stessa passione, la differenza la fa l’evoluzione sociale, che bene o male ha diviso in classi la popolazione.
In bene perché grazie alla scolarizzazione, alle persone è stata data la possibilità di studiare e quindi di elevarsi nella società, in male perché le ha divise tra ricche e povere.
E così ci siamo ritrovati ad essere inseriti in settori a seconda del nostro status sociale.
Se non fosse così qual’è lo scopo della tribuna Tevere o della ricca Montemario, quando lo stadio proprio perché ha la forma di un anello dovrebbe essere il simbolo di equità per tutti, come la tavola rotonda dei cavalieri di re Artù?
Perché allora un ragazzo di una famiglia alto borghese, un figlio di papà, che potrebbe permettersi un biglietto in tribuna Montemario, dovrebbe mischiarsi tra i “giovani provenienti dalla parte più dimenticata della società” come scrive Tobias Jones?
Riflettiamoci un attimo. Un individuo con un’intelligenza superiore alla media, dove tra i suoi simili resterebbe nell’anonimato, potrebbe diventare un leader conosciuto e rispettato da tutti, in un gruppo di persone con un’intelligenza inferiore alla media.
Egli sa che troverebbe un buon terreno per gettare le fondamenta del suo nuovo mondo, un commando. (segue)
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Conclusioni. 3

Se mettiamo infatti in evidenza, con un pennarello rosso, la frase che il protagonista dice: “è principe, ma alle corse perde conoscenza e gioca in società ‘co Agustarello, che fa er monnezzaro.” notiamo che sostituendo la parola “corse” con “stadio” come se fosse una costante il significato non cambia.
La variabile invece è la perdita di conoscenza. Perché il contesto è diverso.
Chi tra i sopra citati sarebbe pronto a perdere la ragione una volta che fosse così inebriato dai fumi del tifo?
Chi di questi andrebbe anche oltre lo stadio? Oltre la partita?
Il giovane neolaureato? Il dentista o il meccanico? L’insegnante o il disoccupato?
Tobias Jones non ce lo dice, ma ci fa capire che la violenza, prescinde dal ceto sociale e sicuramente nelle fila degli ultrà della Roma, della Lazio o nei Boys dell’Inter o tra i drughi della Juventus ci sono e ci saranno stati anche giovani di buona famiglia, dalla doppia vita come Alex de Large, il protagonista di “Arancia Meccanica” di Anthony Burgess. Che sia il partner di un ex galeotto nello scontro fisico con le altre tifoserie o vicino ai binari a raccogliere sassi da tirare durante la partita, poco importa perché come diceva un tifoso: “Quando divento un tifoso, nessuno mi chiede cosa faccio nella vita. Ho la sciarpa, la bandiera, lo striscione e tutto il resto non conta. Allo stadio vivi una situazione di gruppo, lo stare insieme, una socialità non gerarchica e quindi di uguaglianza che in giro non trovi da nessuna parte [...] allo stadio questa sensazione di essere di troppo o fuori posto, invece, non ce l’hai mai" (segue)
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Conclusioni. 2

C’è un bellissimo film del 2005 di Lexi Alexander, Hooligans, nel quale Elijah Wood (il Frodo de “Il signore degli Anelli) interpreta Matt Buckner, un ragazzo americano debole, insicuro e senza certezze, che decide di partire per Londra a trovare la sorella. Appena arrivato fa amicizia con il fratello di suo cognato, Pete Dunham (Charlie Hunnam), che è il leader degli hooligans del West Ham United, la Green Street Elite (GSE, che si ispira all’Inter City Firm). Successivamente all'entrata nel gruppo, partecipando attivamente al ritorno alla "vecchia fama" della GSE con scontri violenti con altre tifoserie, Matt diventa molto sicuro di sé e comincia a vedere il mondo da un'altra prospettiva.
Nel suo libro Tobias Jones raccoglie testimonianze secondo le quali i componenti degli ultrà, fossero giovani provenienti dalla parte più dimenticata della società “[...] noi siamo dei teppisti, disadattati, figli di una società violenta e malsana. Noi siamo tutto ciò che non vorreste ci fosse, ma che continua la propria vita nel ghetto della violenza da stadi” ma poi aggiunge anche: “nella curva di uno stadio ci si ritrova accanto il giovane neolaureato e il ragazzino che vive di espedienti, il dentista e il meccanico. L’insegnante del liceo e il disoccupato, il figlio del finanziere e quello del contrabbandiere, il salutista e il tossicodipendente. I rampolli delle famiglie bene e le nuove leve della malavita.”
Questa variegata umanità mi fa tornare in mente la battuta di Gigi Proietti in quello che ormai è un cult movie degli anni ‘70 di cui noi romani conosciamo a memoria le battute: Febbre da cavallo.
Nell’incipit, Proietti alias Fioretti Bruno detto “Mandrake”, accanito giocatore dei cavalli racconta al giudice cos’è il mondo delle corse e ad un certo punto dice: “Matti! Un mondo de matti, roba da manicomio, Signor Presidente!...”
E poi aggiunge: “Prenda il principe Raniero Sforza De Tuminé, è principe, ma alle corse perde conoscenza e gioca in società co’ Augustarello, che fa er monnezzaro...”
La genialità di questa battuta sta nel suo significato recondito. È vero si parla del mondo delle corse dei cavalli, ma la febbre che assale i giocatori è simile a quella dei tifosi di calcio. (segue)
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Conclusioni.

Se si apre un qualsiasi dizionario si scopre che la parola Ultrà deriva dal latino “ultra” che significa “oltre”
C’è infatti un primo elemento di parole che sono composte con questo prefisso, che significa "oltre, al di là, più che" come ultraterreno, ultracentenario e un secondo dove è aggiunto un aggettivo: ultramoderno, ultrasensibile, ultraterreno o un sostantivo: ultranazionalista, ultrafiltrazione, ultrasuono, ecc. a indicare una qualità o una quantità superiore al normale.
Cosa sono allora gli Ultrà, come vengono ben descritti in questo estratto dal libro di Tobias Jones “Ultrà - Il volto nascosto delle tifoserie”?
Sono individui che si spingono oltre la normale e sana passione del tifoso per la sua squadra.
Ma si può misurare il livello di un sentimento come la passione e farlo rientrare in un certo canone, oltre il quale non può più essere definito tale?
Si, se pensiamo ai tanti casi di violenza domestica dove la passione trascende nel possesso, scatena la gelosia e infine si trasforma anche in omicidio.
E anche nel caso di uno sport come il calcio, abbiamo potuto constatare come la passione nei confronti di una squadra per alcuni individui si tramuti in possesso, più che appartenenza, ai colori della squadra.
Dai passi scritti da Tobias Jones si evince come la squadra si ami più della famiglia che viene messa al secondo posto.
Celebre la caricatura del tifoso, fatta da Vittorio Gassman nel film “I mostri” nel quale si vede il padre di una famiglia poverissima, che vive dentro una baracca, prendere i pochi soldi, che sarebbero serviti per sfamare la numerosa prole, per andare invece a vedere la partita.
Quest’amore per la squadra è così forte, che durante la pausa tra la fine di un campionato e l’inizio di un altro si tramuta in un compulsivo acquisto di quotidiani sportivi per restare comunque fedeli alla propria amata, anche quando si sta in vacanza e si dovrebbe spegnere il cervello.
E poi fuori dallo stadio e messi in altri contesti la sana passione di un tifoso non dovrebbe mai superare la sottile linea rossa che divide la ragione dalla follia.
Ma come si fa ad andare oltre questa linea?
Come si diventa ultrà? (segue)
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16ª ed ultima puntata.

Durante gli iperpoliticizzati anni Settanta, la territorialità non era soltanto un romantico legame con la propria zona di appartenenza, ma implicava una vera e propria difesa contro nemici reali: alcune piazze della Capitale – piazza Euclide o piazzale delle Muse, nel cuore dei Parioli – erano note roccaforti di gruppi neofascisti, e di conseguenza, anche dei laziali, mentre sulla zona di Roma Sud tra il Quadraro e Cinecittá, dove erano nati i Fedayn, batteva bandiera giallorossa. Anche l’abbigliamento faceva parte dell’ideologia politica. I tifosi della Lazio indossavano camperos della marca El Charro, stivali texani da cowboy alti fino al ginocchio, e dei lunghi loden austriaci di colore verde oppure dei bomber. Chiamavano gli esponenti dei partiti di sinistra (che avevano i capelli lunghi, indossavano magliette a scacchi, scarpe Converse e la kefiah) “zecche”. Avevano persino un loro repertorio musicale. Lucio Battisti era uno dei cantanti preferiti dai tifosi laziali, in parte perché la canzone “La collina dei ciliegi” conteneva la frase “Planando sopra boschi di braccia tese”, da cui si convinsero che l’autore avesse delle idee politiche simili alle loro.
Ogni curva plasmava e accoglieva i personaggi folkloristici che popolavano le domeniche pomeriggio allo stadio.
C’era Goffredo Lucarelli, tracagnotto e intrattabile, meglio conosciuto come Er Tassinaro. Non riusciva a pronunciare le R e sembrava una parodia del burino romano. Si divertiva a fare scherzi agli amici, accendendo mortaretti tra le dita degli ultrà che si erano addormentati sul pullman.
Gli altri gruppi gli davano sempre la caccia, nella speranza di potergli impartire una sonora lezione. Una volta, durante una partita contro l’Inter, dovette nascondersi in infermeria e travestirsi da infermiere per uscire illeso dallo stadio. Gli fu revocata la licenza di tassista perché in seguito a un litigio aveva lasciato per strada un tifoso della Roma diretto all’aeroporto. Dopo questo episodio, ottenne lavoro come autista per un’agenzia di pompe funebri, e coglieva l’occasione per accettare qualsiasi tipo di incarico che gli consentisse di seguire la Lazio in trasferta per tutto il Paese. Una volta, mentre trasportava un feretro a Siracusa, parcheggiò il carro funebre fuori dallo stadio di Catania per guardare la partita. Quando gli venne chiesto di spostare il veicolo, si rifiutò replicando:

“Sono solo un paio d’ore e poi questo qui mica c’ha fretta”
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15ª puntata.

In quegli anni la squadra si rivelava spesso una delusione. Nonostante fosse conosciuta come “La Magica”, c’era chi la scherniva con il nomignolo “Rometta”. Aveva poche speranze di competere con le ricche società del Nord. L’unico scudetto vinto risaliva alla stagione 1941-42. La Roma aveva qualche giocatore decente ma non aveva abbastanza classe per vincere il campionato. Tra le riserve c’era un ventunenne Claudio Ranieri (divenuto poi un allenatore di fama internazionale), e un ragazzo alto e taciturno – centrocampista centrale – di nome Agostino Di Bartolomei che faceva il suo esordio in prima squadra. I risultati però, tardavano ad arrivare. In una partita di Coppa Anglo-Italiana nella primavera del 1973, la Roma fu battuta dal Newcastle United, dall’Oxford United e dal Blackpool.
La Lazio, eterna rivale della Roma, sembrava più vicina alla gloria sportiva. Nel 1971 la squadra aveva ingaggiato come allenatore Tommaso Maestrelli, che li aveva riportati in Serie A. Con i suoi capelli brizzolati e i modi affabili (era soprannominato il Maestro), era una figura paterna. Invitava i giocatori a casa sua per cena, ma sul piano tattico era un rivoluzionario. Fu uno dei primi esponenti del “calcio totale”, convincendo tutti i suoi giocatori – a eccezione dei due difensori centrali e del portiere – che avrebbero potuto assumere anche il ruolo di attaccanti. All’inizio degli anni Settanta, alcuni osservatori olandesi, che stavano elaborando tattiche simili, chiesero di poter assistere ai suoi allenamenti. L’aspetto più straordinario però era la sua riservatezza, dietro a cui si nascondeva una profonda integrità morale. Nel primo discorso che fece ai giocatori della Lazio, disse chiaramente:

"Parlerò molto poco e quelle poche parole sembreranno molte [...] Dobbiamo volerci bene ed evitare ogni fraintendimento. Credo che la fedeltà sia il più bel dono del mondo. Cresceremo insieme".

Queste sue caratteristiche avevano già portato Maestrelli sulla strada del successo. Nel 1965, in qualità di allenatore della Reggina, aveva contribuito alla promozione della squadra dalla Serie C alla Serie B, e cinque anni dopo aveva portato un modesto Foggia in Serie A. (segue)
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14ª puntata.

Lo stadio per Antonio fu un modo per integrarsi, per essere accettato come cittadino romano. Si ritrovò in un mondo in cui ci si affibbiava soprannomi per via del cognome, dei tratti del viso o delle abitudini. Un tizio con un orecchio mozzato veniva chiamato Er Tazzina. Un altro tracannava litri di bevande gassate e alla fine lo chiamarono Coca-Cola per il resto della vita. C’erano Roberto Rulli e Valerio Verbano, comunisti fino al midollo, ma anche personaggi dell’estrema destra, come Mario Corsi e Francesco Storace. Erano solo ragazzi, molti di loro provenienti dai quartieri malfamati di Roma Sud. Per ragioni demografiche (e per imitare i Boys dell’Inter) era giusto che il nuovo gruppo di Antonio Bongi si chiamasse Boys. Il loro nome per intero era Le furie giallorosse. Avevano dei posti riservati nella parte nord della curva e ai vari capi del gruppo venivano dati biglietti in omaggio dai dirigenti della società. La prima partita fuori casa a cui parteciparono venne giocata a Bologna, il 15 ottobre del 1972. Bongi, il leader, aveva solo quattordici anni e subito si ritrovò a dover difendere l’onore della sua squadra, la sua bandiera e le sue truppe. Era sempre un buon segno se la squadra vinceva la partita in cui tu esponevi lo striscione per la prima volta in terra straniera. E quel giorno la Roma vinse segnando tre gol. Nei primi anni Settanta, la Roma era sostenuta da molti altri gruppi ultrà simili ai Boys di Bongi: i Guerriglieri della Curva Sud, i Panthers, La fossa dei Lupi e i Fedayn. (segue)
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13ª puntata.

Gli ultrà sono ossessionati dalle coreografie, ma forse la dimostrazione più importante di questo aspetto risiede in quell’istinto inconscio di accogliere le menti disturbate fra le loro fila, in mezzo a quella che una rivista di Cosenza chiamava in modo memorabile "mamma curva": una madre che ti ama incondizionatamente. Durante i cori frenetici, furiosi e inebriati dalle droghe, durante i balli e le urla e gli abbracci, i reietti diventano parte della comunità.
Uno degli slogan più famosi recitava: “Ultimi nella società, primi in curva!”.
Antonio Bongi decise che era giunto il momento di fondare un gruppo ultrà quando si recò al vecchio Stadio Comunale a Torino, e vide gli Ultras Granata che battevano incessantemente su dei timpani. Rimase affascinato dal frastuono, dall’energia e dal boato di voci distanti che cantavano all’unisono. Voleva creare qualcosa di simile per la Roma.
Antonio aveva vissuto per qualche anno fra la capitale e gli Stati Uniti. Il suo vero nome era Anthony. Era nato a Santa Monica, in California, ed era il nipote di Herbert Stothart, il compositore hollywoodiano conosciuto per la colonna sonora del Mago di Oz e la canzone “I wanna be loved by you”, resa celebre da Marylin Monroe. Nella sua città natale, Firenze, suo padre, un architetto toscano, si era innamorato della figlia di Stothart, e la coppia si trasferì in California.
Anthony era il figlio maggiore. Crebbe parlando italiano e inglese. Non era mai stato sicuro di quali fossero le sue origini, e divenne incredibilmente bravo a imitare le persone intorno a lui, facendo gli accenti, imparando canzoni e scimmiottando gli adulti boriosi che incontrava. I suoi capelli e i suoi occhi scuri lo rendevano immediatamente riconoscibile in quelle foto di famiglia in cui tutti sembravano avere un’aria compiaciuta, sotto il sole della California alla fine degli anni Cinquanta.
Dall’età di sei anni cominciò a trascorrere più tempo a Roma, dove suo padre aveva trovato lavoro presso uno studio di architettura. Anthony diventò Antonio. Viveva nei quartieri benestanti della città, sulla via Cassia, dove la maggior parte dei suoi vicini tifavano Lazio. Ma Antonio era attaccato ai colori giallorossi della Roma. (segue)
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285 - Medaglia di Bronzo
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12ª puntata.

Non esisteva una livrea in particolare a unire gli ultrà, e non c’era nulla nel loro modo di vestire che potesse lasciare a bocca aperta o terrorizzare i benpensanti. C’è una foto di Geppo – uno degli ultrà più idealisti, seppur sfortunati, della Roma – con i capelli lunghi, senza maglietta, con indosso una salopette di jeans. Ha un aspetto bonario, tutt’altro che minaccioso.
Era questo il lato romantico dell’ultrà: folle, bizzarro e incomprensibilmente variegato. "La curva era l’unico luogo in cui potevi essere te stesso", spiega un uomo di mezza età. "Ti sentivi padrone della tua vita, anche se solo per un istante". La rivoluzione consisteva nella capacità della curva di assimilare l’anima della strada. All’improvviso, continua l’uomo, "il tipo con le scarpe ortopediche che camminava zoppicando per la città gridava con quanto fiato aveva in gola... la ragazza sfortunata che era stata trattata male da tutti ora si sentiva protetta da un gruppo di mille amici". La curva divenne un luogo dove migliaia di uomini e donne affetti da malattie psichiatriche potevano trovare degli amici sinceri. Alla fine del 1978 gli individui che presentavano simili patologie erano sempre più numerosi in curva, a causa della chiusura dei manicomi. Ovviamente, alcuni malati mentali potevano rivelarsi utili durante le risse, e probabilmente qualcuno ancora si approfittava di loro. Molte curve esaltavano la loro follia e il loro status di esclusi dalla società. Esisteva persino un gruppo ultrà del Cremona chiamato Sanitarium e uno a Ragusa chiamato Manicomio. Le parole dell’ultrà della Roma, Geppo, contengono una solennità quasi biblica: "Io sono nelle strade, nelle proteste, nelle scuole, nella disoccupazione, nelle siringhe: io sono tra i rinnegati".
Molti antropologi parlano di riti coreografici attraverso i quali le società primitive reintegravano nella comunità un membro malato. Nel bacino del Mediterraneo, questo fenomeno era chiamato Menadismo o Tarantismo, e nelle culture afro-latine era conosciuto come Candomblé o Shango (segue)
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285 - Medaglia di Bronzo
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11ª puntata.

Questi paradossi sono possibili grazie all’insieme variegato di personalità che popolano gli spalti. È evidente che la stragrande maggioranza delle curve siano degli ambienti inclusivi, in cui l’unico requisito per entrarne a far parte è l’amore per gli stessi colori.
"Quando divento un tifoso", dice uno di loro, "nessuno mi chiede cosa faccio nella vita. Ho la sciarpa, la bandiera, lo striscione e tutto il resto non conta. Allo stadio vivi una situazione di gruppo, lo stare insieme, una socialità non gerarchica e quindi di uguaglianza che in giro non trovi da nessuna parte [...] allo stadio questa sensazione di essere di troppo o fuori posto, invece, non ce l’hai mai".
Di conseguenza, come scrisse Pierluigi Spagnolo nel suo libro “I ribelli degli stadi”,

“nella curva di uno stadio ci si ritrova accanto il giovane neolaureato e il ragazzino che vive di espedienti, il dentista e il meccanico. L’insegnante del liceo e il disoccupato, il figlio del finanziere e quello del contrabbandiere, il salutista e il tossicodipendente. I rampolli delle famiglie bene e le nuove leve della malavita.”

La cultura egalitaria di quel contesto era così radicata che Grinta (che in seguito avrebbe fondato gli Irriducibili) ricorda che le stesse persone che davano del lei a suo padre in ufficio, in curva si rivolgevano a lui chiamandolo per nome, dandogli del tu.
La varietà di individui riuniti sugli spalti si rifletteva nell’eterogeneità dei modi di vestire. Si dice che la divisa della ribellione sia fatta di ordine e uniformità. Ma forse proprio perché in Italia la moda è spesso omogenea, e tende a imitare all’istante e in maniera camaleontica le ultime tendenze, la rivoluzione stilistica dei tifosi – almeno durante gli anni Settanta – era incentrata sull’imprevedibilità. Non c’era soltanto uno stile, ce n’erano migliaia.
Le foto di quel decennio testimoniano un miscuglio di magliette della Wrangler e il logo tondeggiante a tre punte dell’Adidas, di berretti e di passamontagna, di parka e di giubbotti con le toppe della squadra, di basette e di capelli lunghi e teste rasate. (segue)
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10ª puntata.

A cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta i figli cominciarono a ribellarsi ai padri, e quei ragazzi impazienti e arrabbiati erano gli stessi che ripudiavano la saggezza popolare dei loro genitori, tramandata di generazione in generazione. Non si sedevano più nella tranquilla tribuna ma si mescolavano al caos della curva in un simbolico atto di ribellione alla disciplina che gli era stata imposta. Con ogni probabilità la curva era l’unico posto in cui i ragazzi si sentivano ai vertici della scala sociale. Era uno spazio aperto e pubblico, dove potevano finalmente metterla in quel posto, in tutti i sensi, a quei vecchi pomposi che si prodigavano in monologhi interminabili sui tecnicismi del calcio, infarciti di un linguaggio noioso e accademico.
Ma proprio come accadeva in molte rivolte, era anche un bizzarro tentativo di emulazione: un grido di rabbia nei confronti di un padre a cui volevi dire: "Sono più appassionato di te; ed è così che si fa". Spesso, gli ultrà non rinunciavano al loro ruolo ancestrale ma lo reinventavano. Uno degli slogan più usati dai tifosi della Lazio era: “Di padre in figlio”, una frase che indicava che dopo la fedeltà nei confronti della famiglia, veniva quella nei confronti della maglia biancoceleste.
Gli ultrà assumevano spesso posizioni contrastanti. Così, all’interno di quel teatro pittoresco che è la curva, la fedeltà nei confronti della tradizione faceva da contraltare alla rivolta adolescenziale, una tacita violenza era un’occasione per allontanarsene, il disprezzo per il crimine organizzato lasciava spazio alla tolleranza per i reati minori, l’attaccamento al calcio si rifletteva nell’affetto provato per i compagni e il legame con la propria città si tramutava in invidia nei confronti di altre squadre o di altri paesi. (segue)
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9ª puntata.

Le curve offrivano ai giovani un’alternativa al crimine organizzato. In un’epoca in cui le opportunità lavorative scarseggiavano, specialmente al Sud, la tentazione di guadagnare soldi facili tramite azioni criminali era costante. Nonostante Michele Spampinato, il fondatore dei Decisi del Catania, raccontasse di questo fenomeno negli anni Novanta, le tendenze da lui descritte trovarono riscontro in varie ricostruzioni di altri ultrà nei decenni precedenti. "...Ogni giorno si presentava l’occasione di venire reclutati da un clan mafioso per diventarne manovalanza", disse. "Non avevamo una lira in tasca e loro ti offrivano la possibilità di guadagnare una montagna di soldi. Spacciando droga, o facendo le vedette. Si cominciava così e poi chissà dove si poteva arrivare". Lungi dall’essere delle bande di quasi-criminali (definizione ormai ufficiale per gli ultrà), questi gruppi erano un’alternativa al crimine organizzato, forse l’unica alternativa per dei teppisti alla ricerca di cameratismo e nuovi stimoli.
Ma per quegli spettatori imborghesiti che guardavano dall’alto delle tribune, il fenomeno nascondeva un aspetto inquietante, che faceva pensare al Signore delle mosche. La prima analisi statistica condotta dai sociologi Alessandro Dal Lago e Roberto Moscati, indicò che il 57,2 percento degli ultrà aveva meno di ventun anni (e l’11,2 percento era di sesso femminile). Quando gli studiosi misero a confronto le loro ricerche con un altro studio dall’Università di Pisa, i numeri si rivelarono addirittura più alti: il 62 percento aveva meno di ventun anni e il 13 percento era di sesso femminile. Di frequente, i tifosi dai modi più raffinati esprimevano il loro disprezzo nei confronti delle gradinate cantando: "Curva fè schifo, fè un po’de tifo". (segue)
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8ª puntata.

Una volta, Bebo, il fondatore della Vecchia Guardia del Bologna, chiamò gli ultrà "La spuma dei quartieri". Una descrizione che allude all’effervescenza del movimento, all’energia che ribolle e alla terra che emerge dagli spazi urbani meno sofisticati. I reati minori assumevano una connotazione edonistica, poiché le curve erano una sorta di zona franca dove tutto era permesso. Con la diffusione della cannabis in Europa, i giovani iniziarono inevitabilmente a farne uso, per poi cantare a squarciagola inebriati dai suoi effetti. In curva era possibile comprare da fumare e rollarsi una canna senza correre alcun rischio. C’erano spacciatori, borseggiatori e imprenditori. Faceva tutto parte dello spirito carnevalesco.
Se all’inizio degli anni Settanta ci si trovava in una delle famose curve delle squadre di Serie A, la nube creata dai fumogeni e dall’azione degli estintori offuscava la visione dei giocatori che facevano il loro ingresso in campo. I fazzoletti e i passamontagna indossati per coprire i volti servivano non tanto a dare un aspetto da tipi tosti in maschera, quanto a proteggersi dall’aria tossica e irrespirabile. Quando svaniva il fumo, si vedevano i colori delle squadre che sventolavano sulle federe e le lenzuola: rosso e blu (Genoa, Catania e Cosenza), granata (Torino), giallo e rosso (Roma), bianco e azzurro (Lazio) o bianco e nero, come la striscia del codice a barre, della Juventus.
Nei vecchi stadi giganteschi delle squadre di Serie A, con più di diecimila persone in una sola curva, sventolavano un centinaio di bandiere. Alcune non erano più grandi di un foglio A4, mentre altre misuravano sedici metri quadrati, le aste di plastica delle bandiere, larghe circa tre centimetri, si piegavano come ramoscelli ogni volta che gli enormi vessilli venivano agitati controvento per descrivere la figura di un otto. Migliaia di sciarpe ondeggiavano sopra le teste o venivano tenute in posizione orizzontale dalle spasmodiche braccia dei tifosi. Si sentiva il battere dei tamburi. Lo scopo primario degli ultrà, all’inizio, era quello di mettere in scena un grande show. (segue)
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7ª puntata.

Negli spazi sacri della curva bisognava appianare le divergenze. La fedeltà ai vari colori politici - immancabilmente rosso o nero, comunista o fascista - passava in secondo piano rispetto all’attaccamento ai colori della maglia. In questo modo, ad esempio, un ultrà di estrema sinistra come Pompa a Firenze (un omone che difenderebbe i suoi fratelli fino alla morte) potrebbe lavorare fianco a fianco con un ultrà di estrema destra, dal nome curiosamente simile, Pampa, perché per entrambi il colore viola della Fiorentina trascende tutti gli altri.
Inevitabilmente, il disprezzo che le frange estremiste di tifosi provavano per la società era reciproco. I primi gruppi di ultrà venivano descritti - con un linguaggio che si ripete anche a cinquant’anni di distanza - come un “ammasso di primitivi” o un’”orda”, il risultato infernale di una deindividuazione in cui gli istinti collettivi e animaleschi prendono il sopravvento sulla ragione.
Stanley Cohen, nel suo libro Folk Devils and Moral Panics, scrisse che i capri espiatori della società sono come “macchie del test di Rorschach su cui vengono proiettate le reazioni...”. E lo stesso accadde agli ultrà, i cui comportamenti vennero interpretati secondo i pregiudizi del pensiero dominante. Per alcuni, l’ultrà sembrava l’homo sacer del ventesimo secolo, l’uomo maledetto che nella Roma antica veniva allontanato dalla società perché considerato talmente privo di valore da poter essere ucciso da chiunque senza timore. (segue)
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6ª puntata.

Sotto molti aspetti, sembra che gli ultrà rifiutino di essere etichettati come i Letzer Mensch di Nietzsche, gli “ultimi uomini” dell’opera Così parlo Zarathustra. La figura del borghese apatico, pacifista e decadente è esattamente l’opposto dell’ideale a cui aspirano. In un mondo senza cuore e atonale, loro anelano all’azione. In Italia la vita viene spesso descritta come farraginosa, disordinata o confusa. Il termine deriva da “farro”, il pacciame usato come mangime per i bovini, e rappresenta il liquame fatto di compromessi e complicazioni burocratiche che creano inerzia. Gli ultrà - come i futuristi prima di loro - volevano trovare una via di fuga da quella palude stagnante.
Come hanno sempre detto, si opponevano alla remissività di una vita agiata, erano ribelli che rifiutavano il compromesso, erano crociati che non traevano alcun beneficio dalla solitudine dell’esistenza moderna, che non offriva nessuna causa per cui battersi e nessuna lotta da intraprendere.
Ma allo stesso tempo, la curva era una parodia della violenza scatenata dai terroristi politici. Sembrava una satira son et lumière di quel mondo, un’imitazione adolescenziale della violenza. In fondo, non era un atteggiamento troppo diverso da quello dei ragazzini che si fingono grandi centravanti, quando in realtà passano le giornate a tirare due calci al pallone per strada. Paradossalmente, il mondo ultrà poteva davvero servire da rifugio dell’estremismo politico di quell’epoca. In questo contesto storico la ricostruzione folkloristica di una contrada medievale messa in scena dagli ultrà sembrava quasi innocente, tanto lontana dagli omicidi politici quanto lo è una pantomima della violenza domestica: correlata ma imitatoria, un avvertimento piuttosto che un’incitazione.
Di fatto, uno dei princìpi cardine della fede ultrà era il divieto di portare la politica negli stadi. Le curve erano - e i paradossi in questo mondo non fanno altro che aumentare a dismisura - un luogo di estremismo politico ma anche di neutralità, di violenza ma anche di pace. (segue)
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5ª puntata.

Era un’epoca in cui il calcio era uno sport accessibile a tutti: un ultrà della Lazio racconta di quando un biglietto di ritorno per l’autobus da Bologna costava cinquecento lire, (l’equivalente di otto euro oggi). Anche per vedere una partita della Juventus il prezzo del biglietto degli spalti centrali era di trecento lire, ma nella maggior parte degli stadi era facile accedere senza pagare.
Un ultrà dell’Ancona ricorda con gioia di quando "la capienza massima degli stadi era un concetto piuttosto relativo". Le squadre delle serie minori disponevano soltanto di una fila di posti, e gli ultrà erano soliti riunirsi in mezzo all’erba alta, mangiando semi di zucca e imparando cori nuovi.
Le trasferte erano anche meglio. Sentendosi protetti dal fatto che si spostavano sempre in gruppi numerosi, molti ultrà non si scomodavano neanche a pagare il biglietto del treno o a comprare del cibo. Si intrufolavano dentro un bar o un vagone, e mangiavano o viaggiavano senza prendersi il disturbo di pagare. I furti erano molto frequenti, ma gli oggetti rubati non erano come al solito auto o moto, si depredavano piuttosto i treni della carta igienica che serviva per le coreografie, o si svuotavano le cabine telefoniche delle monete, da tirare poi agli ultrà rivali. Li vedevi di fianco alle rotaie del treno mentre si riempivano le tasche di pietre, da usare per lo stesso scopo. Molti tornavano dalle partite fuori casa con le tasche ancora gonfie, questa volta di banconote prese chissà dove.
Era altrettanto importante fare ritorno con una bella storia da raccontare. Maggiore era la sfacciataggine con cui si era compiuto il furto, più intrigante era la storia. Gli ultrà del Torino amavano ricordare di quella volta che il loro compagno Margaro sgraffignò un orologio a Zurigo. Alla fine si rese conto di non avere la chiave per caricarlo così tornò al negozio per chiederne una, e per farselo incartare. Di solito i commessi dei negozi erano stanchi o semplicemente avevano così tanta paura degli irascibili ultrà che non osavano neanche sfidarli. Raramente i gruppi di tifosi si fermavano agli autogrill senza prenderli d’assalto e rubare tutto ciò che volevano. Anche le stazioni dei treni o quelle di servizio erano teatro di varie battaglie campali. (segue...)
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4ª puntata.

Il grande critico Umberto Eco si espresse con molta più sottigliezza, come suo solito. Si chiedeva se questi fuorilegge non fossero altro che teppistelli all’italiana (dispettosi, ma dal cuore grande) o più simili alla Banda Bassotti (i criminali dei fumetti di Paperino) “... gentaglia truffaldina, è vero, ma con una certa carica di folle genialità perché rubano, secondo le regole dell’espropriazione proletaria, al capitalista avaro e prepotente". Da quando è iniziato il fenomeno ultrà, ci si domanda se siano dei semplici furfanti o criminali incalliti, dei Robin Hood anticonformisti o soltanto dei delinquenti.
Gli ultrà avevano uno spirito così giovanile, con la loro energia e il loro temperamento incostante che sfuggivano a qualsiasi tentativo di categorizzazione. Valerio Marchi paragonò questo fenomeno alla storica sovversione dell’ordine sociale, dalla Festa dei folli (che incentivava i bagordi e l’umiltà in chiesa mentre gli ecclesiastici di rango inferiore prendevano il potere per un breve periodo) ai Charivari (in italiano “capramarito”, una processione plateale e simbolica) e ai Sotie (quando i buffoni si facevano dispensatori di saggezza).
All’inizio degli anni Settanta le curve avevano un’aria sorprendentemente inoffensiva, e sembravano più che altro una rappresentazione carnevalesca a buon mercato. Le coreografie venivano allestite con carta igienica e piatti di plastica, con del cartone, del nastro adesivo e delle lenzuola. Così come i giocatori degli anni Settanta avevano un aspetto leggermente più rude e risoluto, molto meno curato in confronto ai calciatori moderni, anche gli ultrà seguivano la stessa logica. La vernice veniva spennellata sugli striscioni senza preoccuparsi troppo del tipo di carattere usato (oggi esiste un font specifico chiamato Ultras Liberi). I tamburi erano ricavati da semplici barattoli di vernice. Un ultrà della Lazio ricorda che il primo tamburo che ebbero a disposizione non era altro che un fusto vuoto di detersivo Dash. Si utilizzava una bottiglia tagliata a mo’ di altoparlante. Per riprodurre l’effetto dei fumogeni spesso si usavano degli estintori rubati, poiché era molto più facile reperirli rispetto ai fumogeni nautici.
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3ª puntata.

A quell’epoca, quando cominciarono a muovere i primi passi, i gruppi ultrà rispecchiavano la violenza degli anni di piombo. Il sociologo Valerio Marchi, ormai scomparso, scrisse che il movimento era formato tanto da “persone che hanno sperimentato la violenza di massa in campo politico” quanto da “persone che hanno sperimentato la violenza per soddisfare i bisogni quotidiani”.
La brutalità che esprimevano i testi dei primi cori (che invocavano costantemente la morte del nemico) ricordavano molti dei canti, al grido di “sangue, sangue”, delle arene di epoca romana. “Noi siamo la Fossa dei Leoni”, cantavano i tifosi del Milan. “Sangue. Violenza”. I simboli innalzati contro i tifosi rivali - bare, scheletri, teschi e via dicendo - creavano l’illusione che la partita sarebbe stata una battaglia mortale. “Devi morire”, era un coro molto diffuso. Molte squadre importanti, ovviamente, si affrontavano due volte nel corso del campionato (anche più di due, se si contano le coppe), cosicché i tifosi avessero abbastanza tempo per osservare gli ultrà rivali e invidiare le loro coreografie. La competizione tra squadre era diventata, secondo loro, una competizione tra curve per stabilire chi avesse il nome, i cori, gli striscioni, i tamburi e i muscoli migliori di tutti.
Come tutte le sottoculture, gli ultrà adoravano fregiarsi del titolo di cattivi ragazzi. L’immagine che si erano creati era sia una visione parodistica che i commentatori benpensanti davano di loro, che un motivo di orgoglio, ogni volta che questi ultimi esprimevano il loro disprezzo nei confronti delle tifoserie, facendo una lista di tutti i motivi per cui il comportamento degli ultrà fosse considerato inaccettabile:

“Gli ultrà sono il male” scrisse un ultrà, “sono il lato oscuro del calcio, l’orrenda oscenità della civilizzazione [...] le fogne a cielo aperto degli stadi. L’icona della violenza cieca e irrazionale. Rappresentano il lato peggiore, se non l’unico male, del sistema calcistico che senza di loro sarebbe candido e immacolato come una vergine [...] noi siamo dei teppisti, disadattati, figli di una società violenta e malsana. Noi siamo tutto ciò che non vorreste ci fosse, ma che continua la propria vita nel ghetto della violenza da stadio [...] siamo ultrà e del resto non ce ne fotte un ca xx o. Noi siamo gli ultrà e amiamo il tifo, il caos, la lotta, lo scontro e la violenza urbana.”

(segue...)
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2ª puntata.

All’inizio era difficile comprendere cosa fossero davvero questi gruppi. Sotto molti aspetti, si trattava soltanto di giovani che si erano separati dalle associazioni ufficiali di tifosi, il prodotto di un ulteriore scisma, ma ben presto fu chiaro che gli ultrà erano fatti di un’altra pasta. Stavano sulle gradinate alle spalle della porta, inventando nuovi cori e nuove coreografie, e facevano un tale casino che spesso gli altri tifosi sugli spalti si lamentavano. L’esuberanza sregolata dei tifosi britannici è sempre stata un loro punto di riferimento. Un tifoso dell’Inter di ritorno dall’Anfield di Liverpool disse che vedere tutte quelle sciarpe che sventolavano gli aveva fatto venire il mal di mare. E lo diceva come complimento, insinuando che i tifosi fossero agitati - e l’aggettivo non era certo usato con un’eccezione negativa.
Nati all’inizio degli anni di piombo, un periodo caratterizzato da violenza politica e omicidi, gli ultrà si servirono del linguaggio e dell’immaginario della lotta armata. Dalla strage di piazza Fontana nel 1969, in cui rimasero uccise diciassette persone in una banca di Milano, il Paese era stato lacerato da una serie di massacri e uccisioni. Gli anni Settanta furono un decennio in cui le Brigate Rosse e altri gruppi terroristici assassinarono numerosi personaggi del mondo imprenditoriale, oltre a esponenti delle forze dell’ordine e della politica, azioni che portarono all’arresto di migliaia di attivisti di estrema sinistra. Nel frattempo, i gruppi sovversivi neofascisti fecero esplodere bombe che uccisero decine di persone e contribuirono ad aumentare i sospetti che delle forze di estrema destra stessero architettando dei colpi di stato. Molti gruppi ultrà della prima ora assunsero nomi come Brigate, Commando, Fedayn, Armata Rossa, Tupamaros, Vigilantes, Armata, Fronte, Falange e via discorrendo.
Gli slogan delle curve adottarono il linguaggio proprio della lotta politica: “Meglio rosso che morto” (il contrario del solito slogan in funzione anticomunista) o “Boys (anziché fascisti) carogne tornate nelle fogne”. I gesti della curva scimmiottavano in maniera evidente quelli dell’insurrezione politica: il pugno sinistro alzato, il saluto romano o due dita e il pollice della mano destra alzati per simulare una pistola puntata in faccia alla classe borghese. Di frequente i passamontagna e le sciarpe tirate con sotto gli occhi contribuivano a mantenere l’anonimato degli intimidatori. (segue)
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