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Vincenzo Iaquinta condannato a 2 anni nel processo "'Ndangheta Emilia", 19 per il padre Giuseppe

L'ex attaccante della Juventus e dell'Italia campione del mondo nel 2006 è uscito dall'aula gridando «Vergogna, ridicoli» durante la lettura della sentenza
Mercoledì 31 ottobre 2018
L'ex attaccante della Juventus e della Nazionale campione del mondo Vincenzo Iaquinta è stato condannato a due anni nel processo di 'Ndrangheta «Aemilia». Per lui la Dda lo scorso maggio aveva chiesto 6 anni, per reati relativi alle armi. Nella sentenza di primo grado è caduta l'aggravante mafiosa.

Le urla «Vergogna, ridicoli»
Non così per il padre dell'ex calciatore, Giuseppe Iaquinta, accusato di associazione mafiosa e condannato invece a 19 anni. Padre e figlio se ne sono andati dall'aula del tribunale di Reggio Emilia urlando «vergogna, ridicoli» mentre era ancora in corso la lettura del dispositivo.

«Condannato solo perché sono calabrese, soffro come un cane»
Fuori dall'aula lo sfogo: «Il nome `ndrangheta non sappiamo neanche cosa sia nella nostra famiglia. Non è possibile. Mi hanno rovinato la vita sul niente, perché sono calabrese, perché sono di Cutro. Sto soffrendo come un cane per la mia famiglia e i miei bambini senza aver fatto niente, ma io ho vinto un Mondiale e sono orgoglioso di essere calabrese. Noi non abbiamo fatto niente perché con la `ndrangheta non c'entriamo niente».

Cutro, la Calabria e la Pianura padana
Cutro è il paese della provincia di Crotone da cui è partita la «colonizzazione» di Quarto Casella, il paese della provincia di Reggio Emilia al centro dell'inchiesta per la presenza di una fortissima locale di ‘ndrangheta. Tutto cominciò nel 1982, quando il boss di Cutro Antonio Dragone, venne spedito al confino nel piccolo centro del Reggiano. Trovò ad aspettarlo una trentina di compaesani, con i quali, secondo la ricostruzione dei Pm, partì alla conquista dell'Emilia Romagna.

Maxiprocesso
La sentenza per 148 imputati è arrivata dopo due settimane di camera di consiglio «blindata» da parte del collegio giudicante composto da Cristina Beretti, Francesco Maria Caruso e Andrea Rat. Il processo Aemilia, il più grande contro la `ndrangheta mai celebrato nel nord Italia, ha avuto ufficialmente inizio il 28 gennaio 2015 con l'arresto di 160 persone in Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia richiesto dalle procure di Bologna, Catanzaro e Brescia. Una inchiesta imponente che ha svelato la presenza ramificata in diversi settori dell'economia e della politica emiliana della ‘ndrangheta.

Le armi
L'accusa rivolta all'eroe di Berlino è legata alla detenzione illegale di alcune armi, mentre come detto è decaduta l'aggravante di aver agito per favorire un'associazione mafiosa. L'ex attaccante è stato trovato in possesso di un revolver Smith & Wesson calibro 357 magnum, di una pistola Kelt-tec 7,65 Browning e di 126 proiettili. Iaquinta aveva regolarmente denunciato il possesso delle armi, dichiarando di custodirle presso la propria abitazione di Reggiolo. Secondo gli inquirenti, le aveva però poi cedute al padre Giuseppe che, fin dal 2012, era destinatario di un provvedimento del prefetto di Reggio Emilia che gli proibiva di utilizzare o possedere armi perché frequentava personaggi ritenuti affiliati alla ‘ndrangheta, e a loro volta poi finiti a processo.

La testimonianza in aula
A maggio, durante il processo, Iaquinta aveva spiegato: «Sono una persona famosa — ha detto — la pistola l'ho presa più che altro per il futuro, per quando avrei smesso di giocare. Mi piaceva andare al poligono quanto tornavo a casa». La consegna delle armi al padre sarebbe avvenuta quando militava nell'Udinese, ed era in procinto di traslocare. Secondo la legge, Iaquinta avrebbe dovuto segnalare lo spostamento delle armi.
Fonte: corriere.it
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