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Mandava in panchina Guardiola, ora in panchina va lui: De Rossi e la Roma, una grande storia d'amore

Daniele pronto a tornare da tecnico nella squadra della sua vita, quella in cui Capello lo lanciò 19enne preferendolo a Pep. Nel 2019 l'addio triste: "Io volevo ancora giocare, la società no". Era un arrivederci...
Martedì 16 gennaio 2024
Capitan Futuro stavolta - proprio ora, proprio qui - è arrivato a destinazione, quell'approdo che la trama tenace del destino - seppur tra attese, inciampi e tormenti - gli ha preservato da tempo: la panchina della Roma. Sul ponte di una squadra de-mourinhizzata sventola la sua bandiera, che poi è quella del "romanismo", l'unica bandiera che l'uomo ha in dotazione, perché egli stesso è stato totem, figlio, fratello, romano e romanista. La storia si recita a nostra insaputa. Meglio attraversare il confine, non solo geografico, anche quello che regola i nostri sentimenti: il possibile ritorno di Daniele De Rossi alla Roma ricuce così una storia comune. È una figurina - la sua, con quella barba ieratica, lo sguardo intelligente, l'idea che restituisce a chi ascolta di avere profondità oltre la superficie - che torna ad incollarsi nell'album più bello, quello che sogniamo quando siamo bambini.

EPILOGO — È un'altra vita che gli si prospetta, questa, tante cose sono cambiate, dentro e fuori la Roma, eppure quella precedente - di vita giallorossa - era finita male, avvelenata da uno strappo che nessuno avrebbe immaginato. Il 26 maggio 2019 Daniele De Rossi chiude la sua straordinaria carriera in giallorosso. Contro il Parma, all'Olimpico; consegnando la fascia di capitano a Alessandro Florenzi. Due anni prima si è ritirato l'amico e il compagno di una vita, Francesco Totti, l'uomo che l'ha sempre - suo malgrado - relegato nella sala d'attesa del futuro. E' una lunga storia d'amore che finisce, quella tra DDR e la Roma. E finisce male.

Alla soglia dei 36 anni e dopo 18 stagioni di serie A, il simbolo di un club che dopo l'addio di Totti aveva trovato in Daniele l'ultima bandiera, annuncia: "Io volevo ancora giocare, la società no". La società: cioè James Pallotta. "Mi spiace. Non sarei stato felice nemmeno se avessi deciso io visto che sto qui da quando ero poco più di un bambino e avevo undici anni. Sarà difficile abituarmi. Il distacco lo sento. Io volevo giocare, loro non vogliono Andrò a giocare da un'altra parte. Non so se andò in America o se resterò in Italia". A luglio sceglie una terza destinazione, il Boca Juniors. L'esperienza dura poco, le ginocchia non reggono più, l'usura dei muscoli sta accelerando. Pochi mesi dopo - gennaio 2020 - De Rossi dà l'addio definitivo al calcio. Dal ragazzo con il caschetto di capelli biondi - quando era adolescente lo chiamavano "Nino" per la somiglianza con Nino D'Angelo - spinto a giocare dal padre Alberto (allenatore di lungo corso nella Primavera della Roma) a campione del mondo vent'anni di calcio italiano da protagonista.

A FIANCO — Ma vent'anni, anche, vissuti all'ombra del Capitano, condizione che non ha mai rifiutato ma che forse - chissà - un po' ha pesato. Sempre a fianco, De Rossi e Totti. In campo, fin dal debutto in sette A di Daniele, nel 2002. A lanciarlo è Fabio Capello, prima in Champions - contro l'Anderlecht, e poi a Como, quando decide di lasciare in panchina - addirittura - Pep Guardiola. Sempre insieme, anche in nazionale, con Totti. Campioni del Mondo a Berlino 2006, arrivano al trionfo da due strade parallele: De Rossi si fa cacciare subito per una gomitata all'americano Mc Bride, poi torna nel giorno della finale e batte uno dei rigori decisivi. Così vicini, così lontani. Totti è di tutti, De Rossi sempre un passo indietro. Consapevole del suo ruolo di scudiero, ma allo stesso tempo capace di affermarsi come uno dei migliori centrocampisti del suo periodo. Un mediano straordinario, di lotta e governo, con un innato feeling per il gol, uno dei pochi esemplari italiani - verrebbe da dire - di "volante" sudamericano. Eppure: con la Roma ha vinto pochissimo, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana. E non tutto e non sempre il suo percorso è stato semplice - Zeman, per dire, gli preferiva Tachtsidis - ma tutto e sempre è stato utile.

ALLENATORE — È l'alba del 2020 quando De Rossi decide che farà l'allenatore. Lo è sempre stato, in verità. In campo, in spogliatoio. Leader ascoltato, compagno rispettato. Ma quelli sono i mesi della terribile stagione del Covid. Tutto viene rimandato. Passa un anno e DDR lo passa in famiglia, con la moglie, l'attrice Sarah Felberbaum, le due figlie avute da lei, Olivia Rose e Noah e Gaia, la primogenita, avuta da un precedente matrimonio. Un anno dopo il ritiro dall'attività agonistica - è il marzo del 2021 - De Rossi entra a far parte dello staff tecnico della nazionale italiana, come uno degli assistenti del CT Roberto Mancini. Farà in tempo quell'estate a vincere l'Europeo, andarsene e tornare più tardi nel club Italia, prima di muovere - da solo - i primi passi con la prima panchina vera, quella della Spal. De Rossi arriva a Ferrara nell'ottobre del 2022. Viene esonerato a metà febbraio. Esperienza deludente, nei numeri (17 panchine ufficiali, solo 3 vittorie) e nella sostanza: il suo staff conosce poco la Serie B, Daniele fatica a trasmettere la sua conoscenza di calcio a calciatori mediocri, la Spal è una squadra senza capo né coda che quell'anno cambia tre allenatori (Venturato, De Rossi e Oddo) e alla fine retrocede inevitabilmente in Serie C.

MAESTRI — De Rossi nella sua carriera ha avuto molti allenatori. Da Capello a Lippi ha imparato l'autorevolezza, da Ranieri - che oppure lo sostituì (con Totti) all'intervallo di un famoso derby - la gestione del gruppo e la serenità da coltivare come valore, quella con Conte è stata una folgorazione ("Tatticamente è un mostro"), di Luis Enrique ha ammirato il coraggio delle idee e la profondità dell'uomo, ma è stato Spalletti il suo faro. Una volta ha detto: "Con lui è come avere un satellitare: imposti la richiesta e lui sa già la strada e la posizione di cui hai bisogno. È uno dei migliori al mondo". E per ribadire la sua personale classifica di maestri ha precisato: "Ho avuto due tra i dieci allenatori migliori del mondo: Spalletti e Conte. Il terzo è Luis Enrique. Con un altro, Guardiola, ho giocato insieme". A proposito: nel giorno del suo debutto in Serie A - la prima delle sue 459 partite in campionato con la Roma, il 25 gennaio del 2003 a Como, la leggenda racconta che sia stato proprio Pep a comunicare a Daniele: "Oggi tocca a te". E magari stavolta Guardiola gli manderà un messaggio, esattamente lo stesso di tanti anni fa quando tutto ebbe inizio: "Oggi tocca a te".
di Furio Zara
Fonte: Gazzetta dello Sport
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