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Mourinho e Lukaku, ex Inter a confronto: perché José rimane capo popolo e Romelu no

Vittorie ma pure empatia e sincerità hanno legato Mourinho ai nerazzurri. Ciò che non ha saputo fare Lukaku
Sabato 28 ottobre 2023
Una casa non è quasi mai per sempre, ma c'è modo e modo di lasciarla. Per questo a José Mourinho, quando tornò a San Siro con la Roma, i tifosi dell'Inter scrissero "Bentornato a casa, José". Per questo per Romelu Lukaku rientrare in quello stadio, con lo stesso giallorosso addosso, sarà solo, e per sempre, un rumore: non dei nemici, ma dei fischi (non più fischietti) che sanciranno definitivamente la fine di quella che era sembrata una vera partita del cuore. Mentre il cuore degli interisti continua a battere per Mourinho con nostalgia che non prevede rimpianti. Anche se da poco ha pronunciato una frase sarcastica, rimbombata in apparenza come schiaffo: "Non sapevo che Lukaku avesse avuto un ruolo così importante nella storia dell'Inter". Anzi, proprio perché l'ha detta: parole in cui riconoscerlo per come i tifosi nerazzurri lo hanno conosciuto, il santo protettore della sua gente e della sua squadra - e oggi Lukaku lo è, e gioca nella sua squadra - sempre e comunque, a prescindere. Coerente a costo di essere frainteso.

GESTI E PAROLE — Questo è stato il primo segreto della totale immedesimazione fra un popolo e il suo leader, perché questo è stato il Mourinho interista: tifoso e capo, dunque capo dei tifosi, idealmente seduto su una balaustra della Curva Nord, in mano il megafono per urlare le parole che qualunque fedele pensava da tempo e sempre avrebbe voluto dire: serviva qualcuno che lo facesse per lui. E nessuno lo aveva mai fatto, avrebbe saputo farlo, con la stessa dialettica sfacciata, al confine con l'arrogante. Per comodità si pensa che l'amore fra Mou e la gente interista sia sbocciato il primo giorno, con il famoso "Ma io non sono un pirla". Affrettato: non è un pirla lui, ma non lo sono neanche i tifosi nerazzurri, non così facili da conquistare. Quel giorno i futuri innamorati iniziarono semplicemente a piacersi, perché un'empatia come quella che sarebbe stata non si costruisce con una battuta venuta bene. Si alimenta giorno dopo giorno: con i risultati, certo, perché se lo Special non avesse portato l'Inter a vincere quello che vinse in quei due anni, oggi saremmo qui a raccontare un'altra storia. Ma pure con gesti e parole, e Mourinho li azzeccò quasi tutti: prima togliendo dalla superficie dell'orgoglio e dei desideri nerazzurri la polvere che si era sedimentata in passato, e neanche i molti trofei in bacheca l'avevano tolta. E poi andando nel profondo.

ESCALATION — Quello che diceva ai giocatori, lo diceva anche ai tifosi. L'importanza di andare oltre se stessi, di cogliere l'attimo perché poteva essere l'ultima occasione di vincere qualcosa di importante in carriera. Ma anche di avere un parafulmine così, gli occhi puntati sempre e comunque su di lui e l'attacco come miglior difesa, perché c'era da difendere l'Inter. Ovvero: come farsi amare creando odio, come minimo un contrasto. L'incarnazione del bauscismo interista, un qual senso di superiorità da rivendicare mostrandosi soli, e unici, contro tutti. Lui e l'Inter sempre "a mi lado", al mio fianco. Eccola, l'escalation post "Non sono un pirla". Eccoli gli "zero tituli", con due parole il ghigno perfido dello spostare pure sugli altri la pressione da risultato. Eccola la "prostituzione intellettuale", perché il tifoso interista per anni aveva visto favori solo per altri e non poteva sopportare manovre che facessero supporre fosse cambiato improvvisamente il vento. Eccole le manette: nel solo intrecciarsi dei polsi il simbolo di quella stessa lotta. Eccola anche l'ossessione del Barça di andarsi a giocare la Champions a Madrid anche in nome dei sentimenti catalani, contrapposta al molto meno politico sentimento interista, quello del sogno.

SIMBIOSI NELLA FELICITÀ — In questa sfida a tutto il mondo fuori (dall'Inter), un tempo impari e invece sempre più eccitante, si è alimentata la simbiosi della felicità fra Mourinho e l'Inter. "Io sono felice se regalo felicità agli altri", è uno dei suoi mantra. "Nessun altro club mi ha regalato la felicità che mi ha dato l'Inter", è stato il suo pegno d'amore postumo. Così felice da non rientrare a Milano con la squadra dopo la vittoria della Champions, perché la testa, non il cuore, gli aveva già detto Real e tornando forse non ce l'avrebbe più fatta a dirottare la sua carriera verso Madrid. In realtà Mou non aveva mai illuso nessuno: già da tempo aveva fatto capire a chi voleva capire di aver scelto l'addio. Poi l'ha anche spiegato: l'addio, e pure quel mancato saluto che aveva ferito chi lo aveva aspettato tutta la notte, nella loro casa. Tutto quello che Lukaku non ha saputo (ancora) fare.
di Andrea Elefante
Fonte: Gazzetta dello Sport
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