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Il meraviglioso mondo di James finito nell'arena romana

Giovedì 21 giugno 2018
Se c'è una vittima in questa storia di varianti e appalti è proprio lui, «il bostoniano di Roma», James Pallotta, l'italo-americano che torna in Italia con un grande sogno e si ritrova (suo malgrado) colpito dagli effetti collaterali di una miserabile storia corruttiva. Il fluttuare degli stati d'animo del Presidente della Roma è affidato a interviste, voci, schizzi di umore nero ufficiali e ufficiosi. Lui, l'imprenditore scravattato con il sorriso smagliante del bucaniere, la passione per lo sport e le battute, la vocazione a gesti clamorosi come il bagno in una fontana capitolina dopo la storica vittoria in Champion contro il Barcellona (gli costò 450 euro di multa e gli ispirò una donazione da 250 mila dollari al Comune). Proprio lui, l'uomo della Charity e dei grandi affari, è stato attraversato da un moto di ira. Subito, a caldo, dopo la notizia dell'inchiesta e degli arresti: «Se ci sarà lo stop allo stadio mi verrete a cercare a Boston!». Poi in toni più ponderati, con parole messe a punto insieme a Mauro Baldissoni, direttore generale della società, il vero «cervello» della Roma in Italia: «La società è estranea a ogni inchiesta, lo stadio si farà». Già. Ma come?

L'amara verità è che l'indagine del Pm Paolo Ielo su Luca Parnasi è diventata decisiva per Pallotta, l'uomo dei due mondi, il doppio proprietario di un pezzo del Boston Celtics e del club giallorosso: questa vicenda è il punto di non ritorno di un viaggio tormentato e imprevedibile. Chi glielo doveva dire al figliol prodigo tomato ricco in Italia che si sarebbe ritrovato a combattere con il sottobosco della «terra di mezzo», con le debolezze fatali del generone romano, con i rubagalline dei nulla osta ai progetti, con la politica debole che si fa tentare dai piccoli oboli, dai cambi merce, dalle false fatture, dalle promesse di assunzione per i figli e dalla questua dei contributi elettorali? Lui abituato a fare le cose in grande, ma anche pragmatico e realista, si era psicologicamente preparato ad affrontare i tentacoli della politica e della burocrazia: «Noi in America abbiamo i terremoti, pensate che sia facile progettare e costruire?». Poteva gestire terremoti, non tsunami. Perché Tor Di Valle è un sisma di proporzioni incalcolabili: quando aveva comprato la Roma Pallotta aveva messo in conto cinque anni di tribolazioni, ora sta entrando nel settimo. Il progetto-stadio resta il grande discrimine per uno che si presentò a Roma dicendo: «So quanto siano pazzi i tifosi romanisti, voi non sapete quanto sono pazzo io». Sembra un secolo fa.

Vennero i tempi eroici di Rudy Garcia (11 vittorie consecutive in serie A), e di «Abbiamo rimesso la Chiesa al centro del villaggio» (citazione di un proverbio francese con cui il Mister sintetizzò la volontà di restituire la Roma, e Roma, alla sua antica grandezza). Arrivarono i sapori agrodolci dell'età spalettiana (l'addio a Francesco Totti). E l'ultima grande favola di Eusebio Di Francesco (semifinale di Champions e record storico di fatturato, 240 milioni di euro). Ma nel bilancio c'è un nemico temibile: il debito. Sempre a livelli di guardia: 274 milioni (con 34 di perdite annue). James si è cimentato nell'impresa di trattare con tre sindaci: Gianni Alemanno, Ignazio Marino, e infine il tormentato rapporto con Virginia Raggi. Stadio sì, no, forse. Pallotta e Baldissoni hanno dovuto dialogare con assessori contrari (come Paolo Berdini, poi rimpiazzato, che del suo No fa motivo di orgoglio) e sostenere trattative estenuanti sulle varianti urbanistiche che, inaugurate dai Grillini con l'idea di tutelare la città, hanno paradossalmente aperto la strada a personaggi come Luca Lanzalone e alla sua proposta di compromesso: «Il M5s e la giunta approvano il progetto a patto che scompaiano le toni progettate da Daniel Libeskind» (e con loro un terzo della cubatura del progetto originario). Pallotta ha rinunciato a malincuore ai gioielli architettonici, dopo aver stanziato con la sua società, in questi anni, 70 milioni di euro per costi di progettazione. Ora scopre che quel compromesso è stato il pretesto perché il costruttore Luca Parnasi mettesse in pratica la filosofia del «Io pago tutti!» incorrendo in vari reati correttivi e nella palude del «traffico di influenze». Pallotta poteva sopportare persino l'idea per lui inspiegabile che la pratica si fermasse per un mese in attesa di capire se lo scheletro sventrato della vecchia tribuna dell'ippodromo dovesse essere considerato un rudere da demolire o un reperto da tutelare. Ma non che il principale dei suoi progetti si bloccasse per i traffici di un avvocato senza ruolo diventato plenipotenziario del sindaco sulle decisioni cruciali. Pallotta, a Roma, ama trovare al De Russie una bottiglia di McCallan di 25 anni, e concludere gli affari con un sigaro, non certo scoprire che dopo «la giornata storica del 5 dicembre 2017» (parole sue per descrivere il Si della giunta e il passaggio di turno in Champion con il Karabakh) l'inchiesta rischia di avviare una procedura di «autotutela amministrativa» che può bloccare tutto. Nonostante i magistrati mettano le mani avanti, se fallisce la società Parnasi, lo stadio di Tor Di Valle è a rischio. Per questo, senza clamore, l'avvocatura capitolina e quella della società stanno cercando un modo per sostituire nel progetto la Eurnova di Pamasi con un nuovo costruttore. Anche perché il rampollo di seconda generazione non fu scelto come socio da James, ma da UniCredit (soluzione logica, visto che, garante dell'indebitamento di entrambi, la banca era deus ex machina sia di Eurnova che della società giallorossa).

La verità è che Pallotta è rimasto «un alieno» nel girone infernale del calcio romano. Il padre James è nato a Teramo, la madre Angela a Canosa. Lui cresce in un modesto appartamento a North End, la Little Italy di Boston. Frequenta la University of Massachusetts Amherst, e dopo un Master in Business administration alla Northeastern University, diventa manager. Inaugura la scalata al successo gestendo fondi di investimento, con un incremento di valore annuo del 20 per cento annuo per 10 anni: nel 2009 fonda la Raptor Group, tra Boston, New York, Miami, Londra, Abu Dhabi. Pallotta presentò la Roma ospitando l'evento nel suo ufficio vetrato mozzafiato nel Meatpacking District a New York. Essere «un bostoniano» negli Usa è un'appartenenza, uno standard da classe dirigente. Bostoniani sono i Kennedy, le grandi famiglie degli affari che muovono la storia con una stretta di mano e dei soldi guadagnati nello spazio di generazioni, paragonabili in Italia solo all'aristocrazia industriale sabauda. Pallotta è stato a lungo tra i 15 manager più pagati d'America, ed è noto per i suoi impegni nel sociale. Donatore dell'Ospedale Pediatrico di Boston, finanziatore di fondazioni artistiche e associazioni benefiche. Oggi la sua ira è tale che, secondo voci ufficiose, è tentato di revocare persino la donazione promessa alla Raggi. Il presidente dell'associazione Roma va matto per il basket, e nel 2002 la passione diventa investimento con l'ingresso nel Boston Celtics, che nel 2008 vince (anche) con lui il titolo Nba. In questi anni Pallotta sviluppa un progetto tutto suo: acquistare una squadra da risollevare e trasformarla nell'affare della vita. «La Roma sarà un nuovo Atletico Madrid» dice, immaginando un'impresa sul modello britannico, come quello dei suoi amici bostoniani che hanno preso il Liverpool: John Henry (con la moglie Linda Pezzuto) e i suoi Red Sox Partners, ibm Werner e Lany Lucchino. Il socio di Pallotta al Celtic, Wyc Gorusbeck, in affari con i Sox dice: «Tifo entrambi i club, ma prediligo il "team-Jimmy"». Cioè la Roma. Vista da Boston, la geografia del calcio europeo sembra il tabellone di un gruppo di amici che giocano Monopoli. Pallotta entra nel gioco con altri tre imprenditori statunitensi (Thomas Di Benedetto, Michael Ruane e Richard D'Amore) con cui nei 2011, grazie a Unicredit, compra la Roma. All'inizio dovrebbe essere un partner, ma Di Benedetto gli cede la leadership: la passione e il sogno di un affare (lo stadio) lo trasformano in protagonista. James, cresciuto in una famiglia «blue collar», è già miliardario: vive in una reggia da 2.500 metri quadri a Weston, cittadina da *** del Massachusetts a un'ora da Boston. È la capitale dei «Paperoni» bostoniani, un codice postale che ti dritto porta al nono posto nella lista di Bloomberg degli uomini più ricchi d'America. Garcia, Baldissoni, SpaBetti, Monchi e Sabatini conoscono bene questo indirizzo riservato. Il castello di Pallotta è protetto da alberi secolari e si raggiunge solo dopo una strada cintata da alte mura. La proprietà (21 milioni di dollari) ha 22 stanze, piscina enorme, campo da basket, cinema, un garage con 10 auto preziose. Il tutto su un terreno di due ettari, più grande del Boston Public Garden. Weston ha il reddito pro-capite più alto dello stato e nelle vicinanze abitano vari membri della cerchia di Pallotta, come i comproprietari dei Celtics (Grousbeck e Steve Pagliuca) e il magnate degli hedge funds Jeff Vinik. Nell'ultimo anno, il New York Times e il Wall Street Journal hanno scritto del nuovo stadio approvato e della vittoria della Roma sul Barcellona 3 a 0 in Champions League. Poi, dal mazzo degli «Imprevisti» del Monopoli bostoniano salta fuori la carta con il nome di Lanzalone e la notizia dell'inchiesta. «Fate tre passi indietro con tanti auguri». Passi che a "James il matto" costerebbero 23 milioni di euro l'uno. E che non vuole fare per nulla al mondo
di L. Telese
Fonte: Il Panorama
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