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De Sanctis: "Il calcio giocato non mi manca"

Venerdì 16 febbraio 2018
Morgan De Sanctis, team manager della Roma, ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano Il Centro. L'ex portiere ha percorso passo passo tutte le tappe della sua carriera fino ad arrivare all'esperienza in giallorosso. Queste le sue parole:

De Sanctis, come ci si sente a stare in panchina e non poter entrare in campo?
«Io sono stato un privilegiato, ho avuto la capacità e la fortuna di giocare fino a 40 ad alti livelli. Ho chiuso la carriera con il Monaco campione di Francia e semifinalista di Champions League. Avevo un altro anno di contratto a Montecarlo, ma la possibilità offertami dalla Roma associata al fatto che non potevo pretendere di giocare per sempre mi ha portato a fare questa scelta. Tutti mi dicevano: "Finché puoi gioca". E io aggiungo: "Finché ne vale la pena". Bisogna rendersi conto di quanto tu puoi dare e di quanto puoi ricevere dal calcio. Il calciatore ad alto livello vive un privilegio, quasi un'esistenza parallela. Il calcio giocato non mi manca, perché ho deciso io di lasciare e perché faccio un altro lavoro che mi prende in toto. Però, mentalmente, il passaggio dal campo alla scrivania è duro. Io non ho avuto il tempo di pensarci».

Che cosa fa il team manager?
«E' la figura cuscinetto tra la società e la squadra. Tutto quello di cui i giocatori e il tecnico hanno bisogno dalla società passa attraverso il team manager. E viceversa. Io svolgo queste mansioni grazie all'aiuto di Gianluca Gombar, un collaboratore preziosissimo».

Il momento più bello della carriera?
«Ho due flash: uno l'esordio da titolare con la maglia del Pescara, nel 1994, a Francavilla, contro il Venezia e con il famoso rigore parato a Vieri; l'altro, in Francia, l'ultima gara della passata stagione con la festa in campo per la conquista della Ligue 1. Due flash in cui c'è un ragazzino inconsapevole della vita che l'aspetta e l'uomo che a 40 anni va in campo con la moglie Giovanna e le figlie Anastasia e Sara di 17 e 14 anni. Non c'è solo la carriera bella, ma anche la famiglia».

C'è un posto dove ha lasciato il cuore?
«Non uno in particolare, tutti i posti mi hanno dato qualcosa. Ovviamente, le esperienze più significative sono le tre più lunghe, quelle di Udine, Napoli e Roma».

Il rimpianto?
«In posti come Napoli e Roma il rimpianto è quello di non aver vinto lo scudetto. A Napoli due volte secondi, due volte secondi anche in giallorosso. Prima il Milan e poi la Juve degli ultimi anni mi hanno negato questa gioia. In questi posti avrebbe garantito l'eternità sportiva e sarebbe stata la ciliegina sulla torta».

Ricorda il primo giorno da portiere?
«Come se fosse oggi! Avevo 5 anni, ero a Guardiagrele, il mio paese, al campetto dell'oratorio. Sono andato dritto in porta e mi sono sentito subito a mio agio. Mi sentivo a casa mia. Sono rimasto sempre lì, mai avuto altre aspirazioni. Ricordo quel giorno, cielo scuro, faceva molto freddo».

Quando ha capito che avrebbe fatto il portiere?
«Mi sono sempre portato dietro i giudizi della gente, in paese come in città. Tutti dicevano che ero bravo. Ma, in realtà, la prima volta che ho pensato che la mia vita potesse prendere una piega ben definita è quando sono stato ceduto (per due miliardi delle vecchie lire, ndr) dal Pescara alla Juventus, nel 1997. Mai vissuto il calcio come un'ossessione. Ho giocato sempre pensando a divertirmi, questa è stata la mia forza. Alla Juve mi sono reso conto che oltre a divertirmi c'erano delle responsabilità da assumersi. In campo e fuori. Ho sempre fatto vita da professionista. Mai fumato, mai ubriacato, mai trovato nei casini. Comportandomi normalmente sono stato il vero trasgressore».

La parata più bella?
«Me ne viene in mente una in particolare. Era la finale di coppa Italia 2012, Napoli-Juve 2-0. Eravamo avanti 1-0 e ho deviato un colpo di tacco di Quagliarella alzando un piede, nonostante fossi con il corpo proteso dall'altra parte. Poco dopo facemmo 2-0».

La papera?
«Gli errori fanno parte del mestiere. I portieri più grandi sbagliano al momento giusto o fanno meno errori possibile. Non ricordo di aver commesso papere che abbiano pregiudicato obiettivi a livello di squadra».

L'amico nel calcio?
«Difficile fare amicizia nel nostro mondo, io ne ho uno che supera tutti a mani basse: Massimo Margiotta, siamo cresciuti insieme a Pescara. E poi siamo stati compagni in Nazionale e a Udine. Con le famiglie ci siamo visti anche a Natale».

La svolta della sua carriera quando ha lasciato Udine?
«Sì, volevo andare all'estero. Dopo otto anni rischiavo di appiattirmi dopo aver fatto anche la Champions con la maglia bianconera. Negli ultimi due anni mi stavo adagiando. La possibilità di andare all'estero ha fatto sì che mi rimettessi in discussione. Ho fatto esperienze che mi hanno arricchito, sul piano professionale e umano».

Il rapporto con la Nazionale?
«Quello che vale per me, equivale a tutti i portieri che sono stati dietro a Gigi Buffon. Sono stato convocato circa 70 volte, ho giocato solo 6 gare. Ho partecipato a un Mondiale, due Europei, una Confederations Cup e alle Olimpiadi di Sidney 2000. E' stato un grande privilegio stare insieme a Gigi, dal 2005 fino al 2013. Peccato per il 2006, mister Lippi fece una scelta diversa. Pazienza!».

Chi è l'erede di De Sanctis?
«Sto rivedendo un modo di parare più essenziale. Prima era spettacolare, ora si sta tornando alla concretezza. A me piace il portiere efficace. Quello che più si avvicina alle mie caratteristiche è Alisson, che ha avuto una maturazione più veloce della mia. Io sono diventato più bravo dopo i 30 anni e il brasiliano è maggiormente evoluto nel gioco con i piedi».

Gli allenatori, il meglio e peggio?
«Oggi dico grazie a tutti e in particolare al primo, Giorgio Rumignani, che mi ha fatto esordire; a Marcello Lippi che mi ha portato in Nazionale; e a Mazzarri e a Spalletti, tra i più preparati in assoluto. E poi il compianto Gino Di Censo, come dimenticare chi mi ha cresciuto?».

Il peggio?
«Io di solito faccio buon viso a cattivo gioco, ho sempre accettato le scelte, anche quelle non condivise. Ho sempre cercato di lasciare un buon ricordo alle persone con cui ho lavorato».

Il rapporto con i presidenti?
«Buono. Ho avuto problemi con Pozzo e De Laurentiis solo nel momento in cui ho comunicato loro che sarei andato via. Volevano tenermi, ma io desideravo cambiare aria».

C'è poi l'aneddoto di quell'Inter-Napoli con annessa irruzione del presidente De Laurentiis nello spogliatoio nell'intervallo?
«Ero appena arrivato a Napoli, nel 2009, e il presidente con il suo modo vulcanico manifestò malcontento rispetto alle prove mie e della squadra».

Di preciso che cosa accadde?
«Entrò nello spogliatoio di San Siro, stavamo perdendo. E cominciò a prendere di mira alcuni giocatori. "Pierpaolo, che portiere mi hai preso?", chiese al dg Marino. Mai potevo immaginare che ce l'avesse con me. Non mi sentivo sotto accusa. Ero troppo sicuro delle mie qualità e della mia forza. Fu un episodio, dopodiché per quattro anni solo complimenti. E quando gli ho detto che andavo via, ha cercato di trattenermi. A Napoli ho lasciato un ottimo ricordo».

Da Udine a Siviglia, svincolandosi grazie all'articolo 17 all'epoca pressoché sconosciuto.
«Avevo tre proposte nell'estate del 2007: Siviglia, Betis e Sunderland. Due di questi tre club mi garantivano il posto da titolare. A Siviglia c'era Palop, 34 anni, capitano, uno dei giocatori più importanti della storia moderna del Siviglia. Quando mi venne a parlare Monchi disse che avrei dovuto giocarmi il posto con Palop. E io accettai. Fino a novembre feci la riserva, poi sono entrato, approfittando di un infortunio di Palop, giocando bene. Al suo ritorno il tecnico gli ha ridato la maglia da titolare e io ho maturato la decisione di andare via perché non potevo essere un secondo portiere in quel momento della carriera».

A Siviglia ha conosciuto il ds Monchi che poi l'ha riportato alla Roma.
«E' un andaluso, ha dei valori umani importanti, un grande professionista. Ha apprezzato i miei comportamenti. Ci siamo conosciuti a Siviglia e dopo il primo anno mi ha ceduto in prestito al Galatasaray e la stagione successiva mi ha venduto al Napoli. Quando è arrivato a Roma si è ricordato di me ed è nata la collaborazione».

E' nata come?
«Alla fine della scorsa stagione, mi ha chiamato: "Morgan, ho bisogno di te". Ci vediamo, pensavo mi proponesse di fare la riserva di Alisson. D'altronde, io avevo un altro anno di contratto con il Monaco. Mi chiese: "Come stai?". Io gli risposi affermativamente. Mi fece parlare e solo alla fine disse che mi voleva come dirigente. E non come portiere. Fu molto divertente, mi chiese di smettere in maniera molto brillante...».

E' mai stato sul punto di tornare a Pescara?
«Nell'estate del 2016, dopo la fine della mia esperienza alla Roma da calciatore, c'è stata una telefonata del presidente Sebastiani che poi non ha avuto seguito. Da quello che so, la società e Oddo avevano già preso un impegno con Bizzarri che era sotto contratto con il Chievo».

De Sanctis unico italiano a giocare in Champions con cinque squadre diverse.
«Dagli ottavi in poi, è un'emozione unica. Per un calciatore ci sono gli Europei, i Mondiali e la Champions. Competizioni top. Ho giocato la Champions con Udinese, Napoli, Roma, Siviglia e Monaco. E l'ho fatta anche con Juventus e Galatasary, ma senza giocare».

E' vero che a Trigoria, quando capita, interagisce con Di Francesco in dialetto abruzzese?
«Certo, con Eusebio e con gli altri componenti dello staff tecnico. Capita spesso, serve per accelerare la comunicazione. Conosco Eusebio da più di venti anni anche se non abbiamo mai lavorato insieme. Lui è testimone di grandi valori. Però, ho sempre apprezzato una cosa, quella carezza che mi faceva sul viso quando ci incontravamo. Una bella persona. Ora sto conoscendo anche un grande allenatore».

Il suo rapporto con l'Abruzzo?
«Ho deciso di stabilirmi a Roma con la famiglia. Ma sono guardiese, sono abruzzese. Ho la residenza a Guardiagrele e il 4 marzo tornerò per votare. Quando penso alla mia terra mi vengono in mente i principi con cui la famiglia mi ha educato. Due paroline chiave: forte e gentile. Vado orgoglioso del mio Abruzzo, non a chiacchiere, veramente!».
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